Mulini ad acqua, mulini a vento

Se pensiamo al Medioevo come all’epoca di una vera e propria rivoluzione energetica è soprattutto per il grande sviluppo dei mulini, e principalmente dei mulini ad acqua; non perché i tecnici medievali abbiano fatto in questo campo grandi invenzioni originali, ma perché applicarono l’invenzione dell’antichità classica alla costruzione di un tale numero di impianti, da provocare effetti profondamente innovatori, in campo economico, sociale, politico. (A sinistra finimenti di tipo ungherese provenienti da oriente, introdotti in Europa nel Medioevo, per l’impiego dei cavalli nel traino di carri e aratri)

Per la scarsità di documentazione, non sappiamo quale fu la velocità di espansione della tecnica dei mulini nei 5 secoli che intercorsero tra la caduta dell’impero e il Mille, ma sappiamo, per esempio, che alla fine dell’impero gli impianti a energia idraulica erano in Francia poche unità e che alla fine del XI secolo se ne contavano in Inghilterra ben 3.624, con una densità abbastanza simile a quella dell’occidente europeo complessivamente. Che l’incremento sia stato non graduale, bensì esplosivo, si spiega con alcune retroazioni positive tipiche dello sviluppo tecnologico in genere; per esempio, con il fatto che chi collabora come assistente col costruttore di un impianto diventava a propria volta costruttore di impianti; ma ci fu una retroazione positiva tipica proprio del mulino idraulico.
Essa fu innescata da uno dei pochi accorgimenti tecnici fondamentali inventati dai tecnici del medioevo, l’albero a camme. Con gli ingranaggi, esistenti da lungo tempo già nell’antichità romana, si era tramesso il moto e se ne era modificato il piano, da orizzontale a verticale e viceversa; con l’albero a camme (un albero rotante che porta delle sporgenze) il moto veniva trasformato, da rotatorio continuo a rettilineo intermittente, e con questa modificazione il mulino poteva venire impiegato non più soltanto per schiacciare e macinare bensì anche per martellare e percuotere.

Questa nuova possibilità, venne sfruttata per azionare grandi, che permisero di ottenere, dalla legna o dalla carbonella, temperature più elevate; questo permise di ottenere ferro di migliore qualità e di lavorarne maggiori quantità; perciò vennero fabbricate in ferro le parti meccaniche dei mulini, che in precedenza venivano fabbricate in legno.
(A destra Albero a camme)

Finché le parti meccaniche erano in legno non si poteva essere certi che il lavoro necessario per costruire il mulino, per lavorare e portare a destinazione le pesantissime macine, fosse davvero un buon investimento: se una parte meccanica si rompeva, tante fatiche andavano in fumo; inoltre, non si sapeva mai con certezza quali dovessero essere le dimensioni dell’impianto: se l’impianto era piccolo rinunciava a sfruttare tutta la potenza del salto d’acqua, ma se aveva dimensioni abbastanza grandi da utilizzare tutta la potenza sottoponeva gli ingranaggi a tali sollecitazioni meccaniche da facilitarne la rottura.

Le parti meccaniche di ferro vincevano queste incertezze e preoccupazioni e ne risultava una diffusa propensione ad accettare i rischi di costruire un mulino ad acqua. Per il fatto di essere riusciti, mediante l’albero a camme, a ottenere una maggiore quantità di calore, a più alta temperatura, quindi una maggiore quantità di energia altamente utilizzabile, ci si trovava a poter costruire più mulini e di maggiore potenza. Più energia si era impiegata, più energia si rendeva disponibile: questa tipica retroazione positiva, che ai nostri tempi veniva chiamata sviluppo, a prima vista sembra quasi un miracolo.


Quel che la gente del medioevo non seppe vedere, e che noi a distanza di quasi un millennio vediamo, è che quel miracolo energetico, tale per cui i consumi energetici non facevano diminuire la disponibilità di energia ma la facevano aumentare, aveva un alto costo sul piano ambientale: infatti quei fuochi, ravvivati dai mantici azionati dal mulino, bruciavano a grande velocità la legna dei boschi europei e perciò, mentre acceleravano la liberazione di anidride carbonica, facevano diminuire l’estensione delle foreste capaci di fissarla. Si intensificava così un processo già attivo all’inizio dell’agricoltura, che nei secoli successivi sarebbe cresciuto a valanga. E cresce ancora, benché la scienza moderna ne abbia individuato le caratteristiche, l’entità, i danni e i pericoli. (A sinistra Mulino idraulico per il sollevamento di acqua irrigua)

Secondo le situazioni locali vennero costruiti mulini idraulici di tipi diversi: a ruota verticale e a ruota orizzontale, azionati per di sopra oppure per di sotto; e ancora più svariati erano gli ingranaggi. Perciò erano molto diversificati gli impieghi: in primo luogo si moltiplicarono gli impianti destinati alle funzioni più antiche, cioè al sollevamento dell’acqua per l’irrigazione, con incremento delle coltivazioni; si diversificarono le preparazioni di alimenti, con mulini destinati alla macinazione non più soltanto dei cereali da panificazione, ma anche dei cereali da birra, della senape, forse dello zucchero di canna; ci furono mulini per affilare, mulini da tornio, da segheria, magli idraulici da siderurgia, mulini per la follatura dei tessuti, per la concia delle pelli, per la sfibratura della canapa, per filatura, per torcitura. In tutti questi settori produttivi, l’energia idraulica moltiplicò la produttività del lavoro e ne risultò un’economia che faceva spazio, per spazi sociali che non erano soltanto elitari, alla soddisfazione di bisogni che non erano più di mera sussistenza.

Ma l’aumento del benessere non andò disgiunto da grandi tensioni politiche e sociali. Infatti l’energia idraulica non era applicabile a tutti i momenti del processo produttivo e l’incremento della produttività del lavoro non fu omogeneo bensì diseguale; la diseguaglianza non fu soltanto tra un settore di produzione e l’altro e neppure tra un’ azienda e l’altra, ma addirittura all’interno della stessa azienda.
Nacquero professioni nuove, come quella di coloro che progettavano e costruivano i macchinari, vigilavano sul loro funzionamento e provvedevano alla riparazione e alla manutenzione.
In un’azienda di torcitura del filo di seta, l’applicazione della ruota idraulica aumentava molto la produttività del lavoro di quelli che erano addetti direttamente a torcere il filo, mentre restava invariata la produttività di quelli che oggi chiameremmo “gli addetti al terziario aziendale”: fattorini, magazzinieri, contabili. Ne derivava un profondo sconvolgimento delle prospettive di avanzamento, di carriera: se rimaniamo nell’esempio della torcitura di seta vediamo che nell’azienda artigiana tradizionale, anche l’ultimo degli apprendisti, addetto a pulire il pavimento o a portare i pacchi, sapeva che col tempo avrebbe imparato il mestiere, sarebbe diventato torcitore, poi maestro torcitore, e poi proprietario della torcitura; ma con l’aumento della produttività del lavoro dei torcitori si creò una sproporzione numerica della composizione del personale, con aumento del numero degli addetti alla pulizia o al trasporto dei pacchi rispetto al numero dei torcitori: e questo aumento toglieva agli apprendisti molte probabilità di avanzamento. Quella divisione del lavoro che un tempo era basata sull’età, adesso configurava delle carriere separate e chiuse.

Questo fatto provocò quella che oggi chiameremo una “crisi di rappresentatività” delle corporazioni: infatti, le corporazioni erano forme di rappresentanza rigidamente verticali e gli addetti alle mansioni meno qualificate accettavano un tempo di farne rappresentare, in quanto sapevano che col tempo si sarebbero professionalizzati: ma i cambiamenti introdotti nella divisione del lavoro dalla ruota ad acqua, togliendo questa prospettiva, tolsero significato alla rappresentanza verticale e indussero gli addetti alle mansioni meno qualificate a tentare nuove strade per la difesa dei propri interessi, organizzandosi orizzontalmente. Le corporazioni non potevano accettarlo, e ricorsero a misure repressive: avevano giurisdizione sugli addetti al mestiere, avevano tribunali e carceri, persino carnefici, e si servirono ampiamente dei propri poteri; ma il popolo minuto non si rassegnò, e combatté nelle strade delle città artigiane più sviluppate d’Italia, dove il popolo grasso accettava con entusiasmo le innovazioni tecniche, ma ne reprimeva le conseguenze sociali. (A destra mulino a vento orientabile)

C’erano, da parte delle corporazioni, anche altri motivi per ostacolare l’inserimento del mulino ad acqua nella vita produttiva: i primi mulini operanti nelle attività artigianali vennero insediati entro i confini delle città, ma poi crebbero di numero, e non trovando più spazio sui tratti di fiume che attraversavano le città, trovarono insediamento fuori, nel contado. Questo fenomeno diminuì la potenza dei liberi comuni, che perdevano il loro ruolo economico, di sedi esclusive della tradizione artigiana.

Anche questo cambiamento si profilava molto importante, e le corporazioni ne erano preoccupate. Infatti, ogni cambiamento radicale nella struttura del potere costituiva una minaccia per il potere loro proprio e combatterono il dilagare del mulino ad acqua con i mezzi che avevano: esse garantivano la qualità dei prodotti e rifiutavano la garanzia di qualità ai prodotti ottenuti con l’impiego di macchine azionate dai mulini. Fallirono, anche in quanto la produzione manuale non era competitiva economicamente con la produzione realizzata a macchina.
(A sinistra mulino a vento con noria per sollevare l’acqua)

Del resto, anche nelle campagne il mulino ad acqua suscitava tensioni. Ne aveva suscitate sin dagli inizi, in quanto il feudatario faceva obbligo ai contadini di servirsi, a pagamento, del mulino per far macinare il grano per usi familiari, e l’obbligo era vissuto come un sopruso. Più tardi, chiedere le prestazioni del mugnaio entrò nel costume, ma le proteste dei contadini continuarono con altre motivazioni: il buon funzionamento del mulino richiedeva salti d’acqua di una certa entità, e perciò si costruirono invasi, canali, deviazioni, al fine di garantire il funzionamento ottimale dell’impianto: ma tali opere sacrificavano le esigenze delle coltivazioni. Così il mulino, che in origine era servito all’irrigazione dei campi, dopo alcuni secoli contribuì a sacrificare l’agricoltura alle esigenze di produzione diverse da quelle agricole.
Non si possono concludere questi brevi cenni alla rivoluzione energetica del medioevo, senza menzionare il mulino a vento. Mentre il mulino ad acqua costituiva un’ eredità di Roma, il mulino a vento giunse, più tardivamente, alla cultura europea dall’oriente, attraverso il mondo arabo. Esso implicava difficoltà tecniche maggiori di quelle del mulino ad acqua, perché l’impianto idraulico era fisso, dato che il fiume cambia la portata ma non la direzione come invece fa il vento. Perciò il mulino a vento veniva costruito con una parte inferiore fissa, o base, e una parte superiore, o castello, che si poteva far ruotare intorno a un asse verticale; alla parte superiore erano fissati i telai, o pale, su cui venivano tese le vele. ( Sotto Mulini a vento in serie, in funzione di idrovore, per il sollevamento di acqua stagnante) 

Quando il vento mutava direzione si faceva ruotare la parte superiore della struttura in modo da esporre le tele nel modo più adatto. Uno dei più antichi mulini a vento fu un mulino siciliano, per la macinazione del sale, ma l’utilizzo più importante di questo tipo di impianti fu il sollevamento dell’acqua. In un primo tempo l’acqua veniva sollevata con la noria o ruota a secchi, che costituiva una modifica degli antichi impianti azionati da animali, ma la modifica concerneva solamente la fonte energetica; più tardi invece il sollevamento dell’acqua venne affidato alla cosiddetta “ruota a schiaffo”: alcuni mulini collegati in serie sollevavano l’acqua di livello in livello. Queste idrovore a vento trovarono campo d’impiego, là dove l’acqua non era corrente, ma stagnante, e consentivano di costruire sia Venezia che l’Olanda.
Si dice che, “Dio ha creato il mondo, ma l’Olanda l’hanno creata gli Olandesi” servendosi delle idrovore a vento.
Le tensioni sociali provocate dai mulini a vento furono più blande di quelle generate dai mulini ad acqua, principalmente per quanto concerne il rapporto con la campagna. Infatti l’impianto idraulico non poteva funzionare senza o l’iniziativa o quanto meno il consenso del feudatario che esercitava autorità sul territorio su cui scorreva il fiume o del proprietario del terreno: perciò, impedire con severe perquisizioni o requisizioni l’uso dei mulinelli a mano privati significava costringere i contadini a svelare al mugnaio la reale quantità di grano che trattenevano per le proprie famiglie: i contadini perdevano così quel margine di possibilità di inganno che li proteggeva contro le esosità del signore. Invece il mulino a vento, tecnicamente non era vincolato a questo o a quel sito ma poteva funzionare dovunque: perciò la subordinazione al signore a al proprietario del suolo era più facilmente evitabile e non accadeva che il mugnaio si comportasse da controllore ed esattore al servizio del signore o del proprietario. Infine, per il funzionamento del mulino ad acqua si rendeva a volte necessario trattenere l’acqua in un invaso, sacrificando gli usi a valle per l’irrigazione, per l’allevamento delle anitre, per la macerazione della canapa; invece il vento non si poteva trattenere, incamerare sottraendolo a qualcuno, concederlo avaramente.
Era libero da servitù verso il signore, non suscitava cupidigie, non si prestava da accaparramenti e deviazioni. Si dice “libero come il vento”: la libertà del vento, generava la libertà del mulino a vento, la libertà dei suoi costruttori e dei suoi clienti. Anzi, i contadini lo consideravano con speranza e gratitudine: quell’impianto avrebbe offerto loro nuove terre da coltivare, sulle quali nessuno poteva esercitare diritti, né di investitura né di proprietà. (A sinistra ruota a schiaffo, in funzione come idrovora)
Ma il mulino a vento non ebbe altrettanta importanza quanta ne ebbe il mulino ad acqua per lo sviluppo della metallurgia: infatti, la metallurgia ha bisogno di temperature elevate, ed esse si ottengono, non dal mulino in se stesso, bensì dall’applicazione del mulino alla combustione della legna o del carbone dolce: e la legna e il carbone dolce erano disponibili vicino alle acque correnti piuttosto che in prossimità delle acque stagnanti, dove il vento gonfiava le vele dei mulini.


 

Tratto dal libro “Ambiente Terra – l’energia, la vita la storiadi Laura Conti
Oscar Mondadori