In “castro Montonis”, nel castello di Montone, nasce nella prima metà del secolo decimoterzo (tra il 1216 e il 1220), sant’Albertino, in un periodo storico in cui più aspre infuriano le lotte tra i partiti, terminate con la vittoria momentanea dei Guelfi, e che nel 1216 assoggettarono il borgo a Perugia.
Forse fu uno del popolo, un lavoratore della terra, perché a Montone è rimasto ancora sulle bocche del popolo che egli fosse un contadino delle “Palare”, e poi anche il fatto che non abbia un cognome ci fa pensare che fosse proprio un figlio umile del popolo.
Non sappiamo a quale età Albertino si sia fatto monaco, né quale fu il suo primo eremo o monastero.
Forse entrò nel monastero di Sitria (1265), ricoprendo il ruolo di priore claustrale, per poi passare, per elezione a Fonte Avellana.
Certo è, comunque, che Albertino sia entrato in un eremo o monastero di origine romualdina e di regola damianea (rif. San Romualdo e San Pietro Damiani).
Da quello che egli ci mostra di essere più tardi, possiamo anche individuare la struttura mentale e morale del giovane abate.
A Fonte Avellana
Eletto Priore maggiore (dopo il dicembre del 1260), dai 150 monaci che disponevano di voto dell’abbazia di Fonte Avellana. L’Abbazia in quel momento si trovava in una fase di grave crisi nonostante fosse al massimo della sua espansione e potenza, venne chiamato a porre rimedio a tale situazione un uomo che alla ancor giovane età e alla saviezza della mente, unisse anche altre grandi virtù.
I compiti del Priore maggiore erano quelli di far osservare la Regola, le tradizioni, le istituzioni e dirigere l’amministrazione del patrimonio. Certo è che Albertino, con la sua moderazione e santità, riuscì a riportare la pace a Fonte Avellana.
Di sant’Albertino è rimasta la collezione delle “carte” del suo trentennale priorato, composta di circa quattrocento documenti originali.
Queste “carte” ci informano indirettamente dell’iniziativa del grande Priore, delle idee e principii che ispirarono la sua azione.
In tutto il periodo albertiano l’assenza del ricorso alla giustizia ordinaria e la ricerca della composizione delle liti fu una costante di Fonte Avellana: difendere i propri diritti senza sottoporsi al giudizio dei magistrati imperiali.
“Communis Amicus”
Fonte Avellana riuscì sempre a rifiutare il contrasto con le proprie popolazioni, garantendo una migliore condizione economica, per una esistenza più degna di quella imposta con la forza e l’arbitrio dai signori alle generazioni precedenti, e questo soprattutto perché Fonte Avellana non era “padrona”, ma solo amministratrice, comunque responsabile davanti a Dio di ogni proprio atto.
Albertino si trovò ad affrontare situazioni di grande difficoltà, soprattutto conflitti con i Comuni limitrofi, spesso le soluzioni richiedevano doti di mente e di volontà particolari, chiamando in causa personalmente il Priore, impegnandone prestigio e autorità.
Albertino comprese”i segni dei tempi”: stabilì buoni rapporti con le popolazioni perché valevano ben più che formali rispetti giuridici, e attraverso uno spirito di pace e di conciliazione, di apertura e generosità riuscì a stabilire nuovi rapporti anche con i Comuni.
Così Albertino spesso venne nominato da ogni suo interlocutore: “communis amicus”.
Morì nel mese di aprile del 1294, fu sepolto nella chiesa di Fonte Avellana, dove riposa tutt’oggi.