Guido, primo marchese del Monte


(…) Alla morte di Federico Barbarossa i grandi signorotti suoi seguaci furono ridotti a mal partito ed ebbero a combattere con le nascenti repubbliche, le quali sotto la protezione dei Papi andavano ogni anno più accrescendo la loro potenza e giurisdizione. Ma quando Ottone IV scese in Italia ed occupò diverse città pontificie, come Acquapendente, Radicofani, S. Quirino, Montefiascone e la Romagna, questi signorotti si gettarono tutti dalla sua parte per rifare le proprie fortune. È facile immaginare come tra questi dovessero esserci alcuni dei nostri marchesi, anche se ciò portava una divisione ideologica nella loro famiglia. Innocenzo III reagì a questo mutamento politico e scomunicò Ottone, per quel che ci riguarda nel 1216 impose al vescovo tifernate Giovanni di far giurare fedeltà alla chiesa da quanti si erano proclamati partigiani dell’Imperatore. Ma Innocenzo III proprio in quell’anno morì in Perugia, per cui i marchesi, facendosi forti dei favori imperiali, per non cadere sotto l’egemonia di Città di Castello, cominciarono a darle molestia ostacolandone l’espansione del contado.

Così si spiega perché i Montonesi, dietro suggerimento del marchese Ranieri di Montemigiano, accettarono la sottomissione a Perugia e nell’atto, pur dichiarandosi pronti a servire in tutto Perugia, eccettuarono ogni guerra al Papa, all’imperatore e ai Marchesi. Così pure verso l’anno 1219, tramite Matteo di Monteauto, i marchesi riuscirono a rimettere le mani su Citerna, su cui fin dal tempo dei loro avi vantavano diritti al dominio. Città di Castello a sua volta proseguiva nella sua passione d’estendersi nel territorio. Fin dal 1203aveva sottomesso Monterchi; nel 1204 fece alleanza con lei l’abate magno di Badia Petroia e potremmo continuare nei pannelli di sottomissione. Cosicché alcuni dei marchesi preferirono fare accomandigia con la città per assicurarsi una maggiore tranquillità. Nel 1208 quell’Ugolino marchese di Colle, che assieme alla moglie Imilia aveva donato alla canonica certe loro pertinenze in Passerina e al vescovo Pietro la capitananza di Montecastelli, ora fece atto di accomandigia con Città di Castello e ne ricevette in cambio la cittadinanza e la protezione. Suo figlio invece donò al Vescovado la rocca di Verna con tutta la giurisdizione nel distretto, ingrossando quindi la signoria vescovile in quel settore. Altrettanto fece nel 1223 il marchese Rigone, legandosi alla città per una comune difesa.

In questo clima va inserito il gesto autoritario che nel 1210 compì il vescovo Giovanni nei riguardi dei marchesi di Montemigiano. Essi tenevano come amministratore della giustizia un certo Ardemanno, e siccome Bonaccorso e il figlio Beniamino, affittuari del Vescovo avevano violato il contratto, il vescovo scrisse ad Ardemanno perchè imponesse loro rispetto del patto. Non sappiamo l’esito di tale ordinanza; sappiamo invece che al 31 dicembre 1226 Montemigiano era già sotto Città di Castello.

Difatti il podestà Umberto d’Armanno e il camerlengo comunale decisero che i Montemigianesi mettessero a disposizione il loro castello, soccorrendo i castellani secondo le loro possibilità e che i consoli di Montegiano, rinnovassero ogni anno il giuramento di fedeltà e l’omaggio di otto libbre di denari pisani; li esentarono tuttavia da far cavalcare ostili contro il marchese Ranieri, almeno che essi non vi avessero voluto partecipare spontaneamente. Nel periodo storico che va dal 1230 al 1250 si ebbero in Italia continui alti e bassi di dominio e di lotta tra le due grandi autorità: il papa e l’imperatore.

La morte di Onorio III e la successione di Gregorio IX acuirono maggiormente tale dissidio.
È vero che il 23 luglio 1230 il Papa si era riconciliato con Federico II, dopo che questi attuò la Crociata in Terra Santa; ma nel 1236 loro si scambiarono lettere tali che dimostrano l’accentuarsi della lotta, finchè poi il 15 aprile 1239 Gregorio IX scomunicò di nuovo Federico, liberando i sudditi da ogni dovere d’obbedienza. L’imperatore con l’animo avvelenato gettò via la maschera e per e per vendetta penetrò nel patrimonio di San Pietro, giungendo a Città di Castello ritornata sua, passando poi aGubbio pure sua, indi andò a Foligno, dove il 9 febbraio 1240 tenne la famosa dieta per legare nella unità le città a lui soggette e rappacificare Castello e Gubbio allora in guerra per il castello di Certaldo. Nel clima di questo disorientamento generale è facile trovare i rami della famiglia dei marchesi divisi tra loro: uno parteggiava per l’imperatore perchè l’altro favoriva la politica papale; per cui l’uno cercava di aumentare il proprio territorio a danno dell’altro.

Fatto sta che Città di Castello nel 1240 dovette rivolgersi con vive istanze a Firenze per chiedere aiuto ed insieme far cessare la lotta tra Guido e Ranieri marchesi, dalla quale nascevano fastidi e scandalo tra i cittadini.

Guido infatti aveva concepito il disegno di ingrandirsi, tentando di mettere le mani sul forte castello di Verna, ma, essendo da secoli proprietà del Vescovado tifernate, dovette abbandonare quella roccaforte di incalcolabile valore strategico. Si protese allora nella valle del Nestoro, e ne occupò vari castelli verso la Toscana: prese poi Canoscio e Lippiano per ritornare nella vallata verso Arezzo, specialmente a Monterchi, territorio che un suo antenato un tempo possedeva e aveva perduto nel1221.

Non contento ancora mise gli occhi su Monte Santa Maria, posseduto allora per l’Imperatore probabilmente dalla famiglia Lambardi, un tempo signora di Citerna e di Monterchi, iniziando così un periodo di lotte tra le due famiglie. Occupò infatti Santa Maria nel 1250, subito dopo la morte di Federico II e vi si sistemò da padrone. Nessun documento ne parla espressamente né ci fornisce i particolari; tuttavia lo si ricava da un atto d’Archivio interessantissimo. Giacchè si tratta d’un avvenimento fondamentale per la nostra storia, ne parliamo diffusamente, traducendo quasi alla lettera un processo intercorso presso il tribunale Vescovile. L’occasione di questo processo fu data da un omicidio avvenuto al monte nel 1280 per ordine del marchese Guido; il colpevole fu condannato e rinchiuso nelle carceri tifernati. Il vescovo Giacomo Cavalcanti il 15 giugno, di sabato, chiamò molti testimoni a deporre, ai quali propose nove quesiti o articoli, non bene formulati nel documento. Come primo testimonio comparve l’arciprete del Monte, D. Peccio. Dopo aver giurato di dire la verità, rispose al 5° articolo:

Peccio: – Come arciprete posso testimoniare che il marchese esercitò personalmente la giurisdizione civile e criminale al monte contro gli uomini del paese e suo distretto, condannandoli più volte nei beni e nelle persone a seconda della gravità e quantità dei delitti commessi, fece decapitere Pieruccio d’Ungarello del Monte, perché partecipò all’omicidio di Rigone di Rinaldo, fece poi prendere Suppolino di Rinaldi del Monte, perchè Fuzio d’Ottavietto del Monte e lo condannò a trecento libbre di denari; lo tenne a lungo prigioniero nel cassero del Monte, finchè Suppolino non pagò interamente la somma del riscatto.

Vescovo: – Come sa tutto questo?

Peccio: – Ero nel pubblico quando il marchese nel pubblico arengo condannò Pieruccio al taglio della testa su al monte. C’erano tutti, o quasi, gli uomini del castello e la sua curia. Ho visto Pieruccio decapitato alla foce (o alle Forche?), vicino al fossato del Monte; era un mio vicino e ho visto quando l’anno portato in chiesa per la sepoltura; c’erano la madre e i congiunti che piangevano desolati dopo la decapitazione..

Vescovo: – In quale anno, mese e giorno sarebbe avvenuto ciò?

Peccio: – Non ricordo bene so che però Francesco era castellano del monte, come lo furono suo nonno prima e suo padre dopo, notificavano i bandi, le condanne e le esazioni e servivano il comune come fanno gli abitanti originari del Monte.

Vescovo: – Potrebbe giurare che il marchese esercitò tale potere?

Peccio: – Lo giuro. Il marchese esercitava tale giurisdizione, o personalmente o mediante il suo vicario, e ciò per circa 28 anni.

Vescovo: – Questo Francesco dove si trova ora?

Peccio: – Ammetto tutto quello che contiene; anzi aggiungo che queste cose sono voce pubblica e notaria diffusa tanto al Monte come a Città di Castello. Altro non so.

Analoghe risposte diedero, come testimoni, l’arciprete di Cagnano, Ondedeo da Marcignano, Bencio da Prine ed altri, ribadendo soprattutto d’aver visto il marchese esercitare la giustizia da 28 anni in poi. A proposito del 5° articolo, l’arciprete di Cagnano rispose: – Ho visto gli uomini del Monte a sua curia obbedire agli ordini del Marchese Guido e della sua famiglia, pagare i dazi e le Gabelle e fare per lui le cavalcate.

Bencio da Prine al 7° articolo rispose: – Ho visto e vedo spesso il detto marchese, sia personalmente sia a mezzo del vicario, costringere gli uomini a fare il giuramento sul libro dei vangeli presentato dietro suo ordine, ed essi eseguiscono quanto viene loro comandato.

Giacomo di Piero all’8° articolo rispose: – Lo so molto bene; Messer Pellegrino allora podestà di Castello, consegnò a me, a Giacomo e Filippo figli d’uno di Prato il prigioniero, perché lo custodissimo nella volta del Comune. Noi lo legammo e da quel momento lo custodimmo e lo teniamo ancora “impeditum in dicta volta Communis”, per ordine dell’attuale podestà Mampillo.

Il prete D. Vita rettore di S. Pietro al Monte, aggiunse qualcosa di più interessante: – Non ricordo bene in quale anno, mese e giorno avvenne tutto questo, ma ricordo che fu al tempo della guerra tra il Monte e Monterchi. Il marchese Guido ebbe il Monte S. Maria lo stesso anno, in cui morì l’imperatore Federico, per il quale era prima custodito detto castello. Anzi posso dire che proprio di gennaio per la festa di S. Paolo (25 gennaio: conversione di S. Paolo), il marchese vi entrò di prepotenza, ma anche per volontà degli uomini del Monte, esercitò il suo potere da circa 33 o 34 anni e punì gli uomini nei beni e nelle persone a norma degli Statuti di detto castello.

Seguono altre testimonianze, ma le lasciamo per non ripeterci inutilmente. Tutto sommato possiamo concludere ed affermare con sicurezza che Guido, già marchese di Colle e Montemigiano, prese possesso del Monte il 25 gennaio 1250 e vi esercitò da allora la sua piena autorità feudale, fino a condannare i colpevoli a norma degli Statuti già vigenti in quel territorio, ad esigere tasse e dazi e a farsi obbedire nelle cavalcate e nelle guerre da lui volute (…)

 Autore: Angelo Ascani

CITTA’ DI CASTELLO 1999
Ristampa a cura del Comune di Santa Maria Tiberina