Introduzione di  Mirko Santanicchia

Il mobile umbro o il mobile in Umbria?


Un libro come questo pone problemi fin dal titolo, a quanto so di complessa gestazione.
“Umbria” sostantivo, o il più impegnativo “umbro” aggettivo, chiamano in causa una determinazione territoriale che nella forma odierna manca di salde radici storiche.
Dico subito, e proverò a motivarlo di seguito, che condividevo la prima scelta dall’autrice per un più prudente e, a mio avviso, corretto “Il mobile in Umbria”, poi modificato per esigenze editoriali.

Tener conto dei “confini” nell’approccio ai problemi artistici, all’apparenza assunto scontato, è in realtà acquisizione metodologica piuttosto recente, e anche complessa da mettere in pratica: perché di confini ne esistono di tanti tipi, perché cambiano nel tempo, e, soprattutto, perché bisogna intendersi sul valore del termine “confine”, del quale il più delle volte si dovrà accentuare la valenza di zona  di “contatto” e di “scambio” piuttosto che l’accettazione di “limite” o “divisione”.

Il caso dell’Umbria, partendo dal I sec. a. C. quando il termine nacque, fino ad oggi, è emblematico. E’ noto come fu Augusto, nella sua divisione della penisola a determinare la “VI regio”, cui dette il nome di Umbria. Ma la regione augustea insisteva su un territorio ben diverso dall’attuale, avendo il Tevere come limite come limite estremo ad occidente, e spingendosi fino all’Adriatico a includere la costa compresa tra Rimini e Ancona; escluderà cioè tutta la fascia a sinistra del fiume, Perugia, il Trasimeno, appartamenti alla “VII regio” ovvero l’Etruria. Tale situazione fu modificata già da Diocleziano nel III secolo d.C, e le variazioni politiche seguite alla fine dell’Impero Romano d’occidente comportarono ulteriori cambiamenti.

Dal VII secolo l’assetto del territorio riflette la contrapposizione  tra il potere tra il potente e vasto ducato longobardo di Spoleto, e la fascia rimasta di pertinenza bizantina, quella del cosiddetto “Corridoio bizantino”, che, seguendo la valle del Tevere, univa Roma a Ravenna.

La realtà è ancora più frammentata a partire dall’XI secolo con l’età comunale, quando i protagonisti sono i singoli comuni, il cui controllo si spinge ad abbracciare il contado circostante; è così per PerugiaCittà di CastelloGubbioGualdo TadinoFolignoTodiTerni,  NarniOrvieto, limitandosi ai principali. Di solito lo spazio di influenza del comune ricalcava, un altro confine quindi, che in questa fase del Medioevo assume una valenza assieme politica e religiosa, e di conseguenza culturale.

Le Diocesi

Le diocesi, anch’esse nei secoli più volte ridisignate, accorpate, create ex novo, si estendevano sovente a coprire zone oggi divise dai confini regionali moderni, definiti solo con l’Unità d’Italia dopo il 1860.
La diocesi di Gubbio, ad esempio, ha compreso a lungo centri marchigiani come Pergola, e rispetto al perimetro regionale odierno sconfinavano anche quelle di Orvieto, Città della Pieve, Città di Castello, Nocera Umbra e Spoleto.
A parte i primi due, i casi citati, i casi citati si spingevano tutti al di là dell’Appennino, catena lungo la quale corre il confine regionale attuale, segno che questa spina dorsale della penisola non ha mai diviso nulla. L’area appenninica è stata sempre molto più permeabile di quanto si creda, attraversata da un fascio di percorsi che assicuravano collegamenti del tutto proficui, sul piano commerciale quanto artistico, e le stesse influenze dialettali così frequenti ne sono una efficace testimonianza . Realtà politiche ben definite come il ducato dei monte feltro di Urbino si estendevano anche sul versante occidentale dell’Appennino, gravitando su Gubbio, fin dal XIX secolo e per oltre due secoli; la città di Sant’Ubaldo “rientrerà” nei confini dell’Umbria solo con l’assetto loro dato dopo l’Unità d’Italia, partizione che poneva un Umbria anche Rieti e la Sabina, aggregate al Lazio nel 1923.

Allora, riportando il discorso sul tema della produzione artistica, verrebbe da chiedersi se un mobile fatto da un artigiano di Gubbio nel XIV secolo, vada considerato un prodotto umbro o marchigiano.

Un altro aspetto determinante, sempre in rapporto al problema del titolo, sono le moltissime presenze straniere che arricchiscono la scena artistica del territorio, fondamentali nel settore dell’ebanisteria e dell’intaglio, per i quali i documenti ricordano un gran numero di artefici, attivi tra  XV e XVIII secolo, provenienti da Francia, Germania, o dalle Marche, o dalla Toscana, ma anche riminesi, bolognesi e bresciani.
 

La Sintesi

Mi pare, a questo punto, che una buona sintesi del discorso possa essere quella offerta da Bruno Toscano in chiusura del primo importante convegno sull’argomento tenuto nel 1997 a  Pergola, nelle Marche, quando riflettendo sul concetto di scuola o di bottega, osservava come  “si continui spesso ad incollarvi un aggettivo ad esponente geografico: regionalizziamo il manufatto ligneo, dalla scultura all’oggetto di arredo, con una sorta di distrettuazione su base geografico-stilistica che produce risultati non sempre francamente accettabili.
Credo che dopo una lunga stagione di stabilità ‘geo-stilistica’ sia oggi possibile passare ad una fase di mobilità nella quale privilegiare i dati dinamici rispetto a quelli statici; in altre parole; ad una geografia di circolazione, di movimento, di sconfinamento fra aree culturali, di contatti e di incontri, di rapporti non necessariamente tra regioni contigue.

Con ciò non mi sembra si debba escludere l’esistenza di una produzione “locale”, opera dei numerosi artigiani attivi nelle città umbre, ma essa molto difficilmente potrà avere una connotazione regionale; sarà invece semmai legata alla realtà specifica di quella città, di quell’area, alla sua storia se non non alla microstoria, dai risvolti talvolta molto diversi di secolo in secolo, e si vedrà condizionata da fattori apparentemente secondari, come la viabilità, che univa più o meno saldamente alcune zone rispetto ad altre.

Allora, per un panorama più chiaro c’è ancora bisogno di studi che affondino sul piano documentario e aiutino a chiarire il contributo dei diversi centri di produzione del mobile, come per altro nell’ultimo decennio si è iniziato a fare: per poi procedere cogliendo le dinamiche degli “imprevisti”, come quelli di marca romana nell’orvietano e nella fascia meridionale della regione, e al contempo quelle peculiarità, gli eventuali adattamenti o le piccole varianti, che artigiani locali propongono nella rilettura  del modello aulico importato, o prodotto da ebanisti forestieri. E molto utile sarebbe, allo stesso tempo un accurato repertorio degli arredi raffigurati in pittura, miniatura o altro, prediligendo magari opere ed artisti fortemente legati al territorio, idea niente affatto nuova, ma non ancora concretizzata in modo organico. Due esemplificazioni significative potrebbero essere la miniatura uscita nel 1377 dal pennello di Matteo di ser Cambio, tra i protagonisti del coevo panorama artistico perugino, tratta dalla matricola del Collegio del Cambio di Perugia, in cui    figurano un elegante bancone intarsiato, un cofanetto e una scansia a muro; o l’affresco parte del ciclo con Storie di Cristo nell’omonimo Monastero di Foligno, in cui forse Andrea di Cagno, un pittore locale attivo nella prima metà del XV secolo, arreda un ambiente di cucina rendendo con grande efficacia una credenza con piattaia.

MOBILI UMBRI
Dal quindicesimo al diciottesimo secolo 

Editrice La Rocca
2005