Quando Bruno Toscano mi ha invitato a questo incontro di Montone, ho detto subito di sì. E debbo subito vivamente ringraziare Bruno Toscano di avermi offerto l’occasione di tornare sul frammento di laudario di Montone. Confesso che la mia stima verso gli studiosi di arte che studiano l’oggetto concretamente, come appunto fa Bruno Toscano, è assai alta, forse perché anche uno storico della lingua italiana come me ha rivolto gran parte della sua attività sull’oggetto concreto delle carte dei codici.
In quella mia breve nota indicavo che nel frammento di laudario di Montone c’è la lauda della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli, presente nei due grandi codici che tramandano il laudario perugino. E puntualmente le indagini posteriori hanno trascurato la lauda della Pentecoste appunto, vietandosi di usare la chiave per cercare di vedere come si è comportato il trascrittore del frammento; senza pensare che ciò avrebbe dato luce al lamento della Vergine trascritto nello stesso frammento: e alla figura culturale e filologica del trascrittore; e magari di vedere se il trascrittore del frammento; senza pensare che ciò avrebbe dato luce al lamento della Vergine trascritto nello stesso frammento: e alla figura culturale e filologica del trascrittore; e magari di vedere se il trascrittore sia di Montone… proprio un montonese.
Anticipo subito che dall’indagine che sto per leggervi, il frammento di laudario di Montone risulta essere di una peculiare fisionomia, che se ne fa un testimone importante nella storia del laudario perugino e della sua diffusione; anticipo anche che il trascrittore del frammento è, con ogni probabilità, di Montone, o almeno dell’area linguistica di Montone.
Il trascrittore del frammento di Montone ha una buona cultura grafica e una notevole cultura latina. Le didascalie della lauda della Pentecoste (Descende Sancto Spirito) sono in un latino assai accurato e indicano circostanze non registrate dagli altri codici che trascrivono la lauda: la stanza in cui gli Apostoli parlano lingue diverse, mostrando concretamente gli effetti della discesa dello Spirito Santo su di loro, è introdotta, nei due grandi laudari perugini, da Apostoli, mentre il nostro trascrittore montonese dice Appostoli variis linguis loquentes; e dove i due laudari perugini hanno Omnes Apostoli, il Montonese precisa Appostoli simul discentes et ambulantes; e dove i due laudari perugini hanno Iterum, cioè “ancora”, il nostro trascrittore montonese dice Petrus princeps appostolorum eisdem dixit; e ancora Petrus nei due laudari perugini, Petrus de se ipso et Paulo nel frammento di Montone. Alla cura latina delle didascalie avviciniamo jácobo del montonese per giápoco dei codici perugini.
Il nostro Montonese sa dunque bene il latino; ha una grafia sicura e di una qualche eleganza; trascrive i versi in colonna, uno dopo l’altro, e non a coppie come facevano i trascrittori dei grandi laudari perugini, assisani, eugubini. Si tratta, dunque, di persona di notevole cultura, e non di un copista per le confraternite dei Disciplinati. Ecco la stanza che pronuncia Petros de se ipso et Paulo, tratta dal frammento di Montone:
Io me n’andarò a Roma,
che li m’aspecta Nero emperadore;
Lì el toro se doma,
Et omni prode cavaliere ce more;
Ma ciascheduno rencori,
Ché tosto Paulo sirà aluminato,
En Roma giudicato,
Ad acqua Salvia quello converso.
Rispetto ai due laudari perugini, il trascrittore montonese ha fatto cadere la parola “morrà” nel verso adacqua Salvia morrà quel converso. E poi, la lingua: anderò, rencuore, serà dei laudari perugini, diventano: andarà, rencori, sirà. Pur di non accogliere la forma perugina in -e, rencuore, si introducerencori, rompendo la rima con emperadore e more; e andarà e sirà, per anderà e serà, sono forme che giungevano al nord dell’Umbria dell’aretino e dal senese.
Il grande laudario perugino è disposto con laudi secondo il calendario liturgico, quasi una lauda al giorno, una rappresentazione che si riferisce o al Vangelo o alla festa liturgica o alla festa santoriale di quel giorno. Il Montonese, nelle sue poche carte, registra, come si è detto, Descende Santo Spirito, e la lauda della passione Or ve piaccia d’acoltare, di tradizione non perugina, ma assisano-eugubina. Richiamo l’attenzione su un particolare minimo, ma forse rilevante: alla fine della lauda della Pentecoste, il Montonese pone, in grandi lettere maiuscole Amen, Amen; e poi passa a trascrivere la lauda della Passione.
Probabilmente, si tratta dunque della trascrizione di un uomo di buona cultura grafica e latina, che metteva insieme una specie di antologia di laudi trecentesce di varia tradizione e di varia provenienza e che ne adeguava la lingua alla cultura linguistica scritta locale, propria del nord dell’Umbria estendendosi verso Arezzo e verso Siena. E verso Pierantonio, o fra Ponte Pattoli e Pierantonio, passava e passa ancora il confine dialettale che distingue e separa tutta l’Umbria settentrionale dal tipo umbro perugino e dal tipo assisano-folignate.
La lingua del Montonese è dunque sulla linea delle scritture dell’Umbria non perugina, per cui quase, 20, onne, 24, quillo, 28, noie, 24, 30, luie, 44, forsa, 49, 3, quilla, 35, 62, Giovagne, 86, biata, 117,quisto, 92, pate, 126, dei due laudari perugini, sono nel Montonese, rispettivamente, quasi, onni, quello, lui, noi, forse, quella, Giovanni, beata, questo, padre: e, collegando così il Montonese al toscano non fiorentino, anderò, 109, predecheraie, 104, retornerà, 122, dei codici perugini, sono, nel Montonese, andarò, predicarai, retornarà, con l’intertonica –er– in –ar-: tale accertamento avrebbe potuto evitare l’ircorcervo dello sfortunato editore della Passione mi sarà piena di doglia, che andrà letto misara, cioè “misera piena di doglia“. Per conviene, 81, 98, 108, dei codici perugini, il Montonese ha la forma non dittongata convene, mentre offre, con la Toscana non fiorentina, lengua, 52, lenghuecte, 29, e simo, 27, per semo della prima persona plurale dell’indicativo.
Nell’edizione del grande laudario perugino, che spero prossima, io e i miei coeditori, Enzo Mattesini eUgo Vignuzzi, dovremo fare grande attenzione al frammento di Montone che talora va col codice della Vallicelliana del laudario perugino (tu per vero ai decto del codce Perugino, tu Pietro aie decto del Vallicelliano, tu Pietro ai decto del Montonese; con grande alegrança del Perugino, deletança del Vallicelliano, delectantça del Montonese); e talora col Perugino (cun sì dolce verse del Perugino, cun sì dolce canto del Vallicelliano, cun sì dolce verso del Montonese, avendo rotto il Vallicelliano la rima; per tuta bontade del Perugino, caritade del Vallicelliano, bontade del Montonese).
Ciò che appare anche più interessante è che almeno in un verso il Montonese dà la lezione giusta, al posto di una grave incomprensione, sia del Perugino, sia del Vallicelliano: e per lo mondo far descuramento, è vantaggiosamente nel Montonese e per lo mondo far descurimento, cioè il “descorrimento“, l’andare attraverso il mondo degli Apostoli. Il comportamento del Montonese illumina cioè in maniera singolare la realtà filologica dei due grandi codici perugini. Il frammento di Laudario di Montone registra, dopo la lauda della Pentecoste, la Laus de Passione Christi: a una lauda dei grandi laudari perugini segue una lauda capiale del laudario assisano-eugubino, la lauda sulla Passione di Cristo.
Ed ecco la scoperta del gruppo ligneo di Montone rappresentante la Deposizione, con Cristo crocifisso, la Vergine e San Giovanni. Le chiamiamo astuzie della storia quando si verificano eventi che appaiono in stupefacente connessione. Perché nella lauda della Passione di Cristo, Or ve piaccia d’ascoltare, lauda essenziale del laudario assisano-eugubino, il Montonese inserisce molte stanze che non si reperiscono o altrove, il Montonese inserisce molte stanze che non si reperiscono altrove, che sono fra le più intense della Passione di Cristo e che nella Deposizione hanno il loro punto più alto. Poiché tali stanze del Montonese sono in un testo assai corretto, io credo che tali stanze siano opera del copista del frammento montonese; l’ipotesi più economica, ma anche, fatemelo dire, più affascinante. Ora io vi leggerò tali stanze e vi prego di badare al colloquio fra la Vergine, San Giovanni, Maria Maddalena, i personaggi della Deposizione; e al punto più alto di esso, quando la Vergine Maria manda la sua benda per coprire la parte bassa del corpo di Cristo, chè questo era lo suo uso / fra la gente vergognoso (215-216).
Maria virgo:
“De buono drappo mai non porto
et non me credo mai consolare,
che el mio figliuolo è morto a torto;
trista, già non posso aitare;
or me dàite uno manto scuro,
d’altra gioia mai non curo”.
Iohannes:
“O Maria, non ve desfidate,
che tosto sirai consolata,
ché i profeta ànno prophetato
che dei essere exaltata
er déi avere uno manto bianco,
cusì bello non se vidde anco.
Iohannes:
O Maria, prendi conforto,
per Dio, non te dubitare,
per noi el tuo figliuolo è morto,
mai non te voglio lassare,
nante volglio io morire
che da te me volglia partire”.
Maria virgo:
“Lo mio figliuolo era cortese
sopra omni altra creatura,
ad nullo hom mai non ofese
et non fe’ mai fulia;
per invidia fo pigliato
el mio figliuolo delicato.
Maria virgo:
O giuderi, per cortesia,
la mia benda si portate
al mio figliuolo, la spene mia,
denante si la i parater;
che questo era lo suo uso,
fra la gente vergognioso.
Maria virgo:
La mia benda aggio mandata
ad coprire el mio figliuolo;
una nera me ne sia data;
misera quanto aggio duolo!
O sorelle, si l’avete
su ‘n capo el me ponete.
Maria virgo:
Gectare volglio questa benda
e pigliare volglio la scura;
Io core pare che me se fenda
tanto sento al core langura;
che io so’ vedova verace
che già mai non trovo pace”.
Maria
“O sorella, che è quello che dici?
Par che despreççi quel che è decto.
Consólate, ché despiace
de credere el mal dicto;
ché la Scritura divina
s t’apella per regina”.
Maria virgo:
“O sorella co’ so’ scura,
cusì vaccio so’ cambiata,
che io era en sì grande altura,
ora so’ vile et abasata;
enn- una cella tucta scura
piangere volglio mia tristura”.
Maria virgo:
“O sorelle, co’ siamo robate
e simo pine de gran duolo!
Per Dio ad piangere m’aiutate
la morte del mio caro figluolo;
grande cortesia farire,
sorelle, si voi n’aiutarite”.
Maria Solome:
“O sorella, per tuo amore
volunghiere vorria murire,
ma tanto abonda in me dolore
che non ‘l te podaria mai dire;
si aiutate te podrimo
ad la morte ne mectarimo”.
Iohannes:
“Oi me tristo, or chi m’aiuda,
che Maria vòle spirare,
ed è tanto desvenuta
che non la posso confortare;
bene vorria cum liei murire
tanta pena li veggio aere.
Iohannes:
Dolce madre, or te fonforta,
leva su per lo mio amore;
scolorita se’ co’ morta
e niente ài de valore;
che el tuo figliuolo sì me disse
ch’io da te non me partisse”.
Iohannes:
“O Maria, si lui ed disse
agiatelo per certança;
non era homo che mentisse
et non fece mai fallança.
Non faràne fallimento,
daèndove testo intendimento”.
Maria virgo:
“Nocte e dì non posso pensare
se nnone de la sua revenuta;
più de mille anni me pare
che fosse la sua partita;
de l’altro dì si io me nurisse,
contenta siria si revenisse”.
Iohanne:
“O Maria, molta gente
è da questa voluntade
de vedere l’Onipotente,
el signiore de la veritade;
non tanto tu, Maria,
che el latasti nocte et dia”.
Maria Solome:
“O Maria, tu se’ caritosa
[………………………………….
…………………………- osa]”.
Le parti dell’Umbria comprendenti i Monti Martani, i Preappennini, gli Appennini umbri e i monti verso Monte Acuto sono fra le più aspre e più dure regioni di tutta l’Italia. Qui, per ragioni difficili a capirsi, la realtà religiosa, nel senso più teso e più drammatico, è stata di particolare rilievo. Le “Tavole eugubine” portano inciso, in umbro antico, un grande testo rituale: ma, badate bene, questo è l’unico grande testo rituale di tutto il mondo classico, in sette tavole di bronzo, quattro scritte in alfabeto etrusco e tre in alfabeto latino.
Le confraternite religiose conservano con grande gelosia le loro regole rituali e preferivano distruggerle piuttosto che correre il rischio che un occhio estraneo le profanasse. Ed ecco perché delle confraternite antiche (pensate alle Vestali) non si è conservato nessun rituale, se no questo di Gubbio, inciso nel bronzo imperituro.
Se volete comprendere qualcosa della realtà rituale, nella sua minuziosa e ossessiva ripetizione, nelle sue continue allitterazioni (appunto come ripetitive e allitteranti sono le formule rituali del Messale Cattolico), andate a leggere le “Tavole eugubine”. Ecco il nome della città di Gubbio, “mehe tote iioveine“: mehe corrisponde al latino mihi e in tote c’è il termine che ritroviamo in lingue germaniche, come l’inglese toum.
L’umbro era una lingua italica, e dunque indoeuropea. E ancora “iuve grabovei buf treif fetu“, “a Giove Grabovio si offrono tre bovi“: fetu è la forma imperativale che le grammatiche latine chiamano imperativo futuro che dominava nelle più antiche leggi romane.
Ed è un testo rituale umbro anche il più antico testo lungo medievale in volgare italiano: Confessione umbra, scritta nell’abbazia di Sant’Eutizio presso Norcia verso il 1080. Essa comprende la formula di confessione e quella di assoluzione, con un minuzioso e vigoroso riferimento alle colpe e ai peccati, ed è inserita tra le formule latine sacramentali di un breviario monastico, con calendario e sacramentario. La Confessione umbra si svolge simbioticamente con il latino, oscillando continuamente fra ripresa di formule latine e franca immissione del volgare, secondo la realtà dei grandi testi in volgare di tutta l’Europa. Non si tratta dunque di testo riutilizzato come guardia di codici: vi ricordo che molti dei testi in volgare più antichi che si siano scoperti sono stati salvati casualmente appunto nelle guardie, dimostrando così lo scarso pregio in cui erano tenuti gli scritti in volgare. Quegli scongiuri, quei testi con parole longobarde sono stati salvati in guardie di codici: anche il testo toscano più antico esistente, della fine dell’XI secolo, la cosiddetta Carta pisana di Filadelfia, da me scoperto a Filadelfia, è nella guardia di un codice pisano, andato a finire nella biblioteca di Filadelfia.
Ecco qualche passo della Confessione umbra, fra i più suggestivi:
“Domine mea culpa. Confessu so ad me senior Dominedeu et ad mardonna sancta Maria er ad Sactu Mychaél archangelu ed ad Sanctu Johanne Baptista et ad Sanctu Petru et Paulu et ad omnes sancti er sancte Dei, de omnia mea culpa et de omnia me culpa, ket io feci da lu battismu meu usque in ista hora, in dictis, i factis, in cogitatione, in locutione, in consensu et opere, in periuria, in omicidia, in aulteria, in sacrilegia, in gula, in crapula, in commessatione et in turpis lucris” […]; “Me accuso delu Corpus Domini, d’io indignamente lu accepi”: “Me accuso de lu ienitore meu et de la ienitrice mea et de li proximi mei, ke ce non abbi quella dilectione ke Mesenior Dominedeu commandao“; e così via.
Si tratta di un testo bellissimo, di cui mi rammarico che sia così poco conosciuto.
Dunque, la Confessione umbra, scritta nell’abbazia benedettina di Sant’Eutizio presso Norcia. Il monachesimo benedettino ha appunto la sua radice in Umbria, nell’opera di Benedetto da Norcia che ha cercato di realizzare la simbiosi di misticismo e di attività pratica e culturale: la scrittura di codici, attraverso cui tanti testi del mondo antico furono salvati, le opere di bonifica e di risanamento agrario, la costruzione delle abbazie come centri di cultura e di attività economiche sono l’avvio alla rinascita della civiltà europea.
La cosiddetta Passione cassinese, conservata nell’abbazia benedettina di Montecassino, degli ultimi decenni del XII secolo, si svolge attraverso personaggi partecipanti alla crocifissione di Cristo che parlano in latino. Solo la Madonna dice versi in volgare quando comincia il pianto rivolto al figlio morto, “eo te portai nillu meu ventre; / quando te beio, moro presente; / nillu teu regnu agime a mmente“, così che il volgare assume il rilievo del momento più alto e conclusivo della Passione. Il testo dellaPassione cassinese travalica ai laudari di Urbino, alla Lamentazio abruzzese, al Pianto marchigiano, fino a rivelare la sua completa realtà di quartina monorima di doppi quinari:
A ccui me laxi me me dolente?
Eo te portai nillu meu ventre;
quando te beio moro presente;
nillu teu regnu àgime a mmente.
Ma del Pianto di Maria in quartine monorime di doppi quinari il testo forse più affascinante è in un codice di Laudi scritto ad Assisi (e quindi dai Benedettini ai Francescani) col titolo di Lauda Sancti Bernardi, titolo istruttivo se si pensa che la preghiera alla Vergine dell’ultimo canto della Commedia è detta da San Bernardo, Vergine madre figlia del tuo figlio.
Se, come pare, le prime liriche della scuola poetica siciliana sono di dopo il 1226, l’anno della morte di Francesco d’Assisi, la prima grande composizione poetica della morte di Francesco d’Assisi, la prima grande composizione poetica della nostra letteratura è:
Altissimu, onnipotente, bon signore,
tue so le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullo homo ène dignu te mentovare.
Il Cantico delle creature è stato scritto in umbro, anzi nel volgare di Francesco di Assisi, nell’assisano dell’inizio del XIII secolo, il volgare appunto di Francesco d’Assisi.
Voglio insistere sulla assisanità di alcuni elementi lessicali del Cantico, adibiti da Francesco a più intensamente realizzare la sua parola poetica.
Laudato si’, mi Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare.
Una prestigiosa edizione critica del cantico, largamente riprodotta, ha corretto skappare in skampare. Ad Assisi scappare non significa “fuggir via”, ma andarsene fuori, uscire di casa”; per cui se voi cercate un amico, e vi rispondono è scappo, o magari è scappito, significa che se ne è uscito di casa. Francesco vuole insomma dire, con potente immagine, che dalla sora nostra morte corporale, nessun uomo vivente può uscirsene via; e skappare, in questo senso, è ulteriore rova dell’assisanità della lingua del Cantico.
Finalmente, in “nullu homo ène dignu te mentovare“, mentovare ha il valore che ancora ha nei dialetti umbri (e in tutti i dialetti centro-meridionali), cioè il valore di “nominare”: ricordo perfettamente il senso drammatico che il verbo aveva quando si diceva di una vecchia contadina che dopo la morte del figlio “non lo mentova più”, non ne fa più nemmeno il nome. Appunto, “nessun uomo vivente è degno di fare il nome del Signore“, dice Francesco, traducendo splendidamene nel suo volgare quanto egli stesso aveva scritto nella Regola I, “omnes nos miseri et peccatores non sumus digni nominare te“. Nella lingua di Francesco, mentovare non è dunque un francesismo, ma è parola propria del volgare assisano (e fatemi ricordare che di ciò ho dato, a suo tempo, ampia dimostrazione.
Il francescanesimo mosse da qui, dalla nostra Umbria, verso l’Europa e oltre, e ne divenne rapidamente il più vivo fermento spirituale: si calcola che, alla fine del Duecento, su benti milioni di abitanti, quanti all’incirca erano gli Europei, vi fossero quasi duecentomila Francescani.
Dai Francescani umbri, l’Europa traeva i suoi ambasciatori nel mondo, come Fra’ Giovanni da Pian del Carpine, vicino a Magione, che, con la sua Historia Mongolorum, dava anche indicazione del nuovo grande pericolo che si correva, con attente informazioni dell’organizzazione mongola. O come fra Giordano da Giano, un povero frate analfabeta, che divenne il diffusore del francescanesimo in Germania; e come accadde ci dice dell’atmosfera in cui venivano organizzate le missiones e imissionearii (anche “missione”, è una parola francescana: prima indicava soltanto il “mittere”, il mandare).
Nel monastero di Santa Croce di Fonte Avellana, sopra una balza del Catria, San Pier Damiani cerca le ragioni della sua vita nella penitenza, nei digiuni, nella mortificazione: “Tra’ due lliti d’Italia surgon sassi, / e non molto distanti a la tua patria, /tanto che ‘troni assai suonan più bassi, / e fanno un gibbo che si chiama Catria, / di sotto al quale è consacrato un ermo, / che suole esser disposto a sola latria“, come dice splendidamente Dante. Gli antichi eremiti della congregazione vestivano di panno ruvido e grossolano di color bianco, appunto il saio dei contadini umbri, come sarà il saio che Francesco fece indossare ai suoi seguaci. E il Catria è sulla linea delle montagne su cui è posta Montone.
Sulle pendici appenniniche umbre è Assisi; e ancora Dante, “Intra Tupino e l’acqua che discende / del colle eletto del beato Ubaldo / [e dunque il monte che sovrasta Gubbio] fertile costa d’alto monte pende“. Qui Francesco indossa e fa indossare, come si è detto il saio, cioè una corta tunica di tessuto grezzo , non tinto, legato dalla cintura più umile, un pezzo di corda. Essi, i Francescani, dovevano andare in coppia, senza fissa dimora, vivendo di elemosina; e quando i Francescani si allontaneranno dalla volontà del loro fondatore, Francesco si ritira nell’eremo della Verna e qui trascorre molti degli utllimi anni della sua vita, tormentato dalle piaghe sanguinanti e purulente delle stimmate e dalla quasi cecità, indotta anche dalla cauterizzazione delle estremità delle palpebre. La Verna, sulle montagne, di là dalla valle dominata anche da Montone.