Santolini Antonella
Pagine 224
KeyBook, marzo 2008
€ 9,90
Introduzione di Enrico Vaime
(…) Arrivando nella mia città, dalla quale vivo lontano da molti anni, provo ogni volta qualcosa che il mio mestiere di umorista mi consiglia di nascondere, ma che somiglia molto alla commozione e che si manifesta con la pelle d’oca, la voglia di fermarmi a parlare con la gente nel dialetto per oltre vent’anni trascurato, il desiderio di sentire ancora il profumo dei tigli che scoppia violento in giugno ed era stato per tanto tempo l’avvertimento che le scuole stavano per finire. Fra stimoli così diversi, arrivando a Perugia, c’è anche l’odore della torta di Pasqua, una pizza al formaggio che, nonostante il nome, in Umbria si continua a fare tutto l’anno. E il ricordo dei “piatti di una volta” che qui da noi però miracolosamente non sono andati persi, anzi continuano nonostante tutto, un’epoca inspiegabilmente felice.
E così ricordo una grande casa di campagna (ma non era poi così grande: mi ricomparve improvvisamente piccola quando ci tornai adulto) e la cucina, che era il motore di tutta la via di quegli anni: luogo di ritrovo per lunghe serate davanti al camino sul quale si gettavano chicchi di granturco che scoppiavano trasformandosi in fiori bianchi, che poi gli americani tentarono invano di farmi chiamare popcorn. Ricordo la vescica di strutto appesa vicino ai fornelli come una sorta di attrezzatura d’emergenza. Allora lo strutto era alla base di moltissimi piatti e la gente mangiava senza che il fegato scoppiasse come succede adesso. Forse una volta il fegato non l’avevano: che sia un’invenzione moderna com il flipper? Si faceva il “battuto” e nessuno parlava di colesterolo. L’olio era verde e buono, i polli non avevano quel sapore di moplen di oggi, il lardo si metteva in mezzo al pane per merende che ignoravano le nutelle e altre similari raffinatezze, le spighe di granturco cotte sulla brace sostituivano i “fuoripasto” precotti, e si cucinava il farro (una farina di grano duro di antichissima tradizione) con l’osso del prosciutto senza pensare al circuito della bile. Che forse non c’era ancora nemmeno lei.
Mangiare da noi era, e in certo senso è anche oggi, qualcosa di più del semplice nutrirsi: momento di amicizia, convivio, modo per esercitare la fantasia e combattere così una relativa povertà d’ingredienti.
Già, la cucina umbra è “cucina povera”. Per questo l’amo quando riesce a valorizzare al massimo quello che la terra sa dare. Anche quando esalta i suoi piatti col tartufo nero considerato con compatimento dagli estimatori del bianco che guardano ad Alba come fosse Las Vegas. Il tartufo nero è buono, non aggressivo, con una sua discrezione che non gli fa annullare violentemente i sapori con quali si incontra. Ha in fondo le stesse caratteristiche della gente di Norcia che lo cerca e lo commercia.
Mi accorgo di aver divagato, di aver citato a caso ingredienti diversi: ma è proprio facendo caso agli ingredienti che si scoprirà la vera natura della nostra cucina. E si eviteranno le confusioni. Da noi si fa una pizza rustica, bassa, fatta di farina, uova e poco più; si cuoce sul carbone, adagiata sopra una specie di coperchio composto di scaglie di marmo impastate con la creta. Questa tortina si mangia con il prosciutto. Qualcuno la confonde o la paragona alla piada romagnola: è segno che non è mai venuto in Umbria o, se c’è venuto, s’è distratto e ha preso sottogamba questo piatto povero così caratteristico per noi e per la nostra cucina non sofisticata, semplice, genuina. Simpatica stavo per dire.