La parola ‘eremo‘ si riferisce a luogo deserto ed incolto e proprio per questo ha un potere evocativo e di richiamo. Nella nostra società iperantropizzata, megameccanizzata, supercommercializzata. invasa d’informazioni e comunicazioni, rumorosa, frettolosa, esso si ripropone con un fascino particolare, cioè quello della ricerca di ‘qualcosa’ che si è perduto. Il monachesimo di per sé ha già una valenza di vita solitaria: monachós=colui che vive da solo per fuggire il mondo (fuga mundi) ed essere a più diretto contatto con Dio. Si sa che il monachesimo si è evoluto in due grandi filoni: quello cenobitico-comunitario e quello anacoretico-eremitico. In Occidente il primo orientamento si è imposto – la Regola di san Benedetto, nel tempo la più diffusa, affermata e seguita, è prettamente cenobitica – ma non ha annullato istanze di vita più solitaria che, in diversi modi e forme sono sempre persistite. Del resto, insediamenti monastici che sono divenuti ricchi e potenti vantano primordi eremitici (San Pietro in Valle, Sassovivo…). Ha scritto Giovanni Cherubini: «Se l’eremo ed il cenobio costituiscono una successione cronologica nella storia del monachesimo, si deve dire che l’esperienza eremitica, la ricerca del `deserto’ con i suoi eroismi ed i suoi spirituali pericoli, continua a vivere, come meta agognata, e possibile soltanto ai più forti all’interno delle abbazie, e conosce anche momenti di particolare favore nel corso dei secoli. Il nostro Occidente non dispone di vere e proprie aree desertiche come l’Oriente, ma ciò non toglie che i suoi rilievi montani, le sue foreste ed i suoi boschi, i suoi anfratti impervi siano state zone isolate tali da essere ambite per `inoltrarsi’ alla ricerca di Dio. Il contesto paesaggistico-ambientale crea suggestioni di sacro e invita a quella contemplazione che nell’ottica cristiana – ma non solo – riconduce a Dio. Il territorio umbro, così mosso e variegato bene rientra in quel genere di ‘natura’ che sollecita all’elevazione della preghiera, al rapporto con le creature che rinviano al Creatore. Il Cantico di frate sole di Francesco d’Assisi rimane un ‘miracolo’ di espressione liturgico-letteraria e religioso-spirituale che forse poteva sgorgare solo nel cuore della bellezza del paesaggio umbro dell’epoca, in un ambiente naturale non selvaggio, ma ancora non vastamente aggredito. Francesco d’Assisi, dunque! è celeberrimo il quesito che il santo e compagni si pongono tornando da Roma nella Valle Spoletana: «Si domandavano ancora seriamente, da persone che si erano impegnate a vivere sinceramente nella santità, se dovevano svolgere la loro vita tra gli uomini o ritirarsi negli eremi. Francesco – che sceglierà l’apostolato attivo – avverte comunque con vigore tutta la forza del richiamo e della tradizione eremitici; non si dimentichi che il santo scrisse una Regola per i romitori. Una tradizione che anche in Umbria viene da lontano: si pensi a luoghi come Sant’Eutizio e Monteluco dove la presenta di eremiti si fa risalire ai secoli V e VI. La vocazione eremitica è una sorta di fil-rouge pressoché ininterrotto: da antichi eremi divenuti cenobi benedettini, come il già ricordato Sant’Eutizio, a fondazioni di stampo vetero e neo-camaldolese (Santa Maria di Sitria e Montecorona); dai luoghi sanfrancescano-minoritici (Carceri, Sacro Speco, Buonriposo) a quelli più ‘misteriosi’ come Santa Maria di Giacobbe (Pale di Foligno) e Sant’Ambrogio di Gubbio. Il volume propone un significativo “campionario” dell’universo eremitico, vario, persistente nel tempo, in mezzo a passaggi, trasformazioni, adattamenti, certamente non immune dalle vicissitudini della storia, ma in grado di sopravvivere e riproporsi; una fiammella, un segno di un’insopprimibile esigenza dello spirito.
GIOVANNA CASAGRANDE
Docente di Storia medievale
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università degli Studi di Perugia