Il Reportage
di Paolo Rumiz
“Un reporter racconta la sua prima volta a caccia del tubero più costoso del pianeta”
Sono facili da mangiare, ma trovarli è roba da chiodi. Se ti invitano a una battuta, pensaci due volte.
Tornerai infangato fin nelle mutande, graffiato dai rovi sulle mani e sul cranio, e le tue scarpe saranno impastate d’argilla tenace come plastilina.
Pochissimi ripeteranno l’esperienza, se dentro non gli si sarà acceso il sacro fuoco. Ma comunque stiano le cose, un giallo tartufo d’Alba val bene la fatica.
Una volta almeno nella vita. E così, quando Giovanni Gallo, da Manforte , roccioso bastione nel cuore delle Langhe del Barolo, un pomeriggio di novembre con luna calante, umidità giusta e gli astri propizi alla crescita del tubero più costoso del mondo, mi chiede se preferisco un sentiero facile o uno ripido e difficile; scelgo ovviamente il primo senza avere la più pallida idea del ginepraio in cui andrò a cacciarmi.
“Nella boscaglia fitta trovi meno concorrenti”, mi rassicura Giovanni, e così all’imbrunire scendiamo con il cane Leo, frenetico volpino di sei anni, nell’ispido impluvio fra due colline coperte di filari di Nebbiolo e Barbera, allineati e coperti come battaglioni in mezzo al gran cerchio delle Alpi innevate. In quegli umidi avvallamenti tutto cambia, comincia la foresta primordiale, a pochi metri delle cantine milionarie.
In posti così, succede che, con la luna in calo, tutti i tartufi del pianeta vadano in fregola: specialmente qui, e specialmente in questa parte dell’anno, quando la natura va in letargo e inizia la stagione triste, fatta di pioggia, nebbia e fango. È il momento in cui “ el trìfure fan l’abitò” dicono nel “Piemunt”, fanno le cucciolate. Il meglio arriva adesso, dopo e non prima le grandi fiere del tartufo. A novembre e dicembre, nella stagione senza odori. In questo tempo è come se quelle patate selvagge, cercassero di mettere in cassaforte un concentrato dei profumi elargiti a man larga da estate e primavera.
Ombra fitta, pioppi, salici, tronchi di quercia trascinati da vecchie alluvioni, terreno spugnoso di tufo, fango e foglie marce color marrone.
Il cane danza, gira in tondo, improvvisa un mezzo tango, fiuta tra i cespugli e accanto all’alveo del torrente, ogni tanto si gira verso il padrone per vedere se il gioco continua o è già l’ora del primo biscotto come premio.
“Lesto! Forza!Vai!” , lo incita Giovanni, ma non è un grido, è un bisbiglio. Il tartufaro non fa rumore, si muove come un partigiano per non svelare i suoi luoghi.
Anche il cane non abbaia mai. Sull’altro lato della valle, verso il castello di Serralunga, le colline di Pavese e Fenoglio illuminate dall’ultimo sole si accendono di giallo spento, rosso scuro, marrone, terra di Siena. Abbiamo con noi lampadine frontali: a caccia non si va con il sole alto perché troppi rumori distraggono il cane.
Meglio la sera , e ancor meglio la notte, specie se è umida, perchè con le nebbie gli odori vanno più lontano.
Ora il cane scava sotto la radice di un calice, Giovanni s’avvicina, cerca a mani nude. È più di un minatore: è un archeologo che spolvera un reperto millenario. Estrae il “sapìn”, la zappina del padre che gli ha insegnato il mestiere, un utensile più vecchio della seconda guerra mondiale. Sembra un martelletto da geologo, col percussore bilanciato dalla lama di una piccola vanga e, in mezzo, il nome del proprietario, “Gallo Carlo”. Il buco s’allarga, ma non c’è niente. Strano. Ora il cane scava in un altro punto, a soli due metri di distanza.
Non si capisce perché, ma poi l’arcano si svela, sono due ingressi separati di una stessa tana di talpa, il tartufo manda il suo richiamo olfattivo da entrambe le parti, ma si nasconde in un punto soltanto. Giovanni, cerca di nuovo con le mani, scava il secondo buco, lo allarga, quasi si ficca dentro per catturare l’odore.
È allora che dal grembo del loculo esce la zaffata di un odore liquido , pesante, che scivola in basso e sembra cercare il fondo dell’avvallamento.
Qualcosa in bilico fra una fioritura e una putrefazione, che ubriaca, stordisce. Sembra impossibile che la fonte di questo concentrato di profumi sia un bitorzolo della taglia di un piccolo limone, color zolfo, in fondo alla terra. Il cane ansima, si divincola di soddisfazione, muove la coda come la pala di un elicottero, chiede con insistenza il suo croccantino, alla carne, ficca quasi il muso nella tasca destra del padrone, poi riprende a cercare. Giovanni ricopre il buco, un po’ per cancellare le sue tracce ai concorrenti, un po’ perché sa che nel giro di due anni, in quello stesso posto nascerà quasi infallibilmente un altro tartufo.
Riparte, e m’accorgo che segue una sua geografia invisibile: lui sa che la fertilità del terreno è un arcipelago, una complicata pelle di leopardo, dove il cane fa da radar, sismografo, avvisatore olfattivo. Rovi tremendi. “perché non li tagli?” chiedo. “Per tenere lontano gli intrusi”, risponde, e già sparisce come uno hobbit sotto un tronco sbilenco coperto di muschio. Mi chiedo come diavolo faccia, Giovanni, a infrattarsi in posti simili a notte fonda.
Siamo già sporchi come marines, ora si è infangato anche il berretto e il taccuino. “Una volta non era così, cercar tartufi era facile” ; la monocultura della vite ha spazzato via molti boschi, e poi nessuno passa più con le pecore ha ripulire la sterpaglia.
” I diserbanti e i fitofarmaci hanno fatto il resto”. Racconta di quando era bambino e papà Carlo lo mandava ogni settimana al mercato di alba con due borse piene di tuberi profumati, roba da tre, quattro chili alla volta. La “malattia” è incominciata allora.
La dipendenza dal cane è totale, quasi umiliante. Hai un bel dire: “Nduma”, vai qua, vai là. Lui sa perfettamente dove cercare.
Disegna sul terreno segni complicati che solo Giovanni sa tradurre. Avere un buon cane è tutto, fa la differenza tra fortuna e scalogna magra.
Anni fa, a suo padre gliene hanno fatti morire quattro i competitori gelosi: diserbante nell’acqua a due, polpetta avvelenata ad altri due. Per questo più son bravi e più si tengono vicini, sorvegliati e sotto controllo. Il fatto è che non basta mai. In campagna c’è sempre qualcuno che ti guarda. Se sei un cacciatore di tartufi e la luce si accende alle due di mattina, significa che stai per uscire in battuta e stai pur sicuro che la concorrenza lo saprà all’istante. Per questo c’è chi esce di casa senza nemmeno accendere la lampadina, per impedire che altri partano alla disperata per tagliarli la strada e fregarlo.
Riemergiamo sulla collina, accanto a una fascia di tufo color crema, in una luce di velluto. Il sole è tramontato, tutto intorno i lumini dei villaggi sono già accesi e dalla parte del Monviso il cielo è un incendio rosso-arancio di una nitidezza impressionante, orlato dalla cresta dentellata delle Alpi.
In basso, negli avvallamenti, le prime brume azzurre. Scendiamo, lungo la traccia fangosa per tuffarci in un’ altra gola. Il cane sparisce in un intrico impenetrabile, ora col suo colore volpino mimetico diventa difficilissimo da seguire. I migliori cani da ricerca notturna dovrebbero essere bianchi per risaltare nel buio, ma Leo è troppo in gamba lo stesso, va a colpo sicuro, e Giovanni lo segue con fiducia anche se pare la selva oscura dell’inferno dantesco.
Sul fondo c’è un torrente disseccato, la torcia elettrica rivela che è coperto di tracce di ungulati, caprioli, cinghiali, tassi. Silenzio. Unico rumore le zampe che passano felpate sulle foglie cadute, e il ronzio lontano di un jet che taglia il cielo sulla verticale con le luci intermittenti tra i rami neri della boscaglia. Ora Leo ritorna, sempre in perfetto silenzio, come se non avesse peso, tira letteralmente il padrone verso una scarpata. Inciampo, perdo gli occhiali, li ritrovo passando la torcia elettrica sulle foglie fradice, ora sono infangato anche sulla schiena. Ma la preda numero due è già individuata, Leo funziona come un sonar a caccia di sommergibili. La Spada di luce penetra nella pancia della Langa, e in fondo non c’è un altro tubero giallo, più chiaro del precedente. Un pezzo da trenta grammi, con un lombrico che si divincola sul lato sinistro. Non è finita. Ancora uno, cento metri più in alto. “A ie la?”, c’è? L’hai trovato?
Domande secche, sparate a bassa voce come la parola d’ordine di una banda di fuorilegge.
La luce cerca ancora tra tronchi rovesciati, edere e rampicanti. Giovanni avanza come un soldato della Grande guerra nelle trincee delle Ardenne, il fango è tale che sembriamo ciclisti della Parigi-Roubaix. Il terreno è raspato di fresco da un branco di cinghiali, disturbati nella loro tana. Hanno frullato le zolle come un esercito di trivello. Il cane scava poco sopra, e di nuovo, in fondo ad un’ altra cripta, ecco venirti incontro il piccolo, inconfondibile segnale color limone. Ormai siamo presi dalla caccia, non sentiamo né la fatica, né la fame, né la sete. Lontano, lo scampanio della chiesa di Diano d’Alba salute l’ultimissima luce dalla parte del viso.
Doppia razione di croccantino per Leo, che non smetterebbe mai. “Non mangia per fame, ma per sentire che gli sono grato”, spiega Giovanni. Racconta che bestie così si allenano da piccole. Si comincia seppellendo una fetta di salme o un pezzo di gorgonzola. Poi aramatizzi il boccone con tartufo, infine provi a nascondere nel terreno qualche piccolo tartufo nero dei noccioli, dall’odore forte ma quasi immangiabile per l’uomo.
Molto importante è che la bestia abbia al suo fianco un cane già esperto. È questo che lo differenzia tra un onesto cercatore e un figlio d’arte come Leo.
“Ci sono le scuole per cani da tartufo, ma più importante è che il cane viva la ricerca come un gioco, non come un lavoro”.
Ora è buio pesto, riemergiamo sul crinale con le luci di Cuneo che scintillano lontano sull’ultimo pezzo di pianura tra Alpi e Appennini. Sopra il Monte Argentera il cielo ci regala una congiunzione planetaria – Giove e Venere vicinissimi in cielo- e le vette dentate disegnano il profilo della lanterna magica contro le stelle. Parliamo a bassa voce come in chiesa, siamo in una terra benedetta. Passiamo accanto a dei filari. “ Qui- racconta Giovanni- cinque anni fa ne ho trovato uno di mezzo chilo. Mai più niente di simile. Forse è colpa del verderame” . Dal sacchetto con le prede esce un profumo irresistibile. Chiedo come si mangiano qui in Piemonte. “Shan da fare col taiarin, fonduta, uova e burro sciolto”, ma entrambi sappiamo che il gusto migliore è quello della ricerca. È ora di tornare è accendere un fuoco.
La mattina dopo piove, sul Monviso nevica, soprattutto i milleduecento metri, la temperatura è scesa di mille gradi, ma i gialli tuberi delle Langhe, non vanno affatto a dormire. Crescono ancora, anzi più di prima. Sono figli eletti della terra, e sguazzano nel fango in questo clima da funerali. Andiamo a trovare Gian Bovio, uno che per quarantaquattro anni ha gestito il miglior ristorante della Morra e ha visto passare per le mani tartufi a quintali. Non li ha mai cercati, li ha solo messi in piatto, ma a sessantasei anni li conosce come pochi. Esce dalla cucina del suo nuovo ristorante dove lavora con la figlia Alessandra e il genero Marco Boschiazzo, con due cesti pieni di profumati bitorzoli, e in un attimo la stanza è satura di odore. Tre chili più o meno, roba da dodicimila euro al dettaglio. “Costano troppo e il consumo è diminuito. Ma la qualità… senta che roba”. Poi sorride guardando la pioggia: “altro che ottobre! Questa è la stagione buona. Col fuoco acceso e la nebbia”.
Tratto da: “La domenica di Repubblica”
Novembre 2008