di Jean-Claude Maire Vigueur Ordinario Storia Medievale – Università di Firenze
Assisi, primi anni del Duecento. Il figlio di uno dei più ricchi mercanti della città, da tutti conosciuto per essere un festaiolo sempre pronto a sperperare i soldi del padre in festini e balli, decide di cambiare vita. Abbandona la ricca casa paterna e va a vivere tra la folla dei diseredati che si sono ammucchiati nei suburbi della città. Chi ha visto il film di Liliana Cavani (Francesco, 1989) con un grande Mickey Rourke nel ruolo del protagonista, ricorda forse le immagini che la regista ci offre di questi suburbi, con la gente stipata in squallidi tuguri di paglia e di legno, le stradine ricoperte di fango, i bambini che giocano in mezzo alla sporcizia e, per finire in bellezza, un temporale tropicale che porta via tutte le baracche. Sono immagini che non stupiscono più di tanto il pubblico di oggi il quale, anche se non ha mai messo piede nelle baraccopoli di Calcutta o di Città del Messico, ha l’impressione, grazie alla tv, di sapere già tutto sulla miseria del Terzo mondo. C’è però, nel fim della Cavani, un particolare che forse avrà colpito gli spettatori e che comunque introduce una netta differenza tra le baraccopoli del Medioevo e quelle di oggi: la presenza altezzosa delle mura della città che segna anche fisicamente una separazione radicale tra due mondi, quello dei cittadini di antica data, ben al riparo dietro alla possente cerchia delle mura, e quello dei cittadini di più recente immigrazione, privi di ogni difesa in caso di aggressione esterna.
Come erano le città medievali?
Ma erano davvero così le città medievali? Possibile che ci fosse un abisso così profondo tra le due categorie di cittadini? Di sicuro tutte le città dell’Occidente conoscono, a partire dal XII secolo, un fortissimo incremento della loro popolazione. E le città italiane molto più delle altre: in un pò più di un secolo, ovvero tra la fine del XII e l’inizio del XIV secolo, raddoppiano e talvolta triplicano il numero dei loro abitanti. Intorno al 1300 Milano raggiunge così la soglia dei 150mila abitanti, Firenze e Venezia quella dei 100mila. Bisognerà aspettare la fine dell’Ottocento per vedere le stesse città fare un nuovo balzo in avanti e entrare in un ciclo di crescita ininterrotta. Nel frattempo, le città italiane avranno sofferto le pesti e le carestie del Trecento, attraverso fasi alterne di ripresa e di crisi ma senza mai espandersi oltre i limiti dell’ultima cerchia di mura, quella costruita all’apice della loro crescita demografica nella prima metà del XIV secolo.
Ma quale fu il principale motore, in Italia, di questa impetuosa crescita della popolazione cittadina?
Essenzialmente l’arrivo in città di una massa di immigrati, secondo un fenomeno esattamente analogo a quello che provoca oggi l’incontenibile espansione delle metropoli del Terzo mondo. Conta senz’altro in un caso come nell’altro, un generale miglioramento delle condizioni di vita che assicura alle città una certa crescita interna, ed è questo fattore che spiega, per esempio, la crescita delle città francesi, tedesche, spagnole o inglesi. Ma non c’è dubbio che in Italia fu principalmente l’inurbamento, ossia l’arrivo in città d’intere famiglie venute dal contado, e talvolta anche da zone più lontane, a provocare il formidabile sviluppo delle città, a fare dell’Italia medievale questo paese urbanizzato che tanto stupiva i viaggiatori stranieri per l’importanza, la bellezza e la ricchezza delle sue città.
Ma non dimentichiamo che le zone residenziali che caratterizzano l’immediata periferia delle nostre città. Solo che i risultati non sono esattamente gli stessi: i quartieri costruiti tra XII e XIII secolo per iniziativa degli enti ecclesiastici figurano oggi tra le zone più belle e pregiate dei centri storici mentre quelli costruiti dopo la seconda guerra mondiale sono rimasti le schifezze che erano già in origine. Se qualcuno ne dovesse dubitare, gli consiglierei di fare due o tre passi a firenze nelle vie intorno a San Marco o a Perugia nel quartiere di Sant’Angelo e poi fare il confronto con quello che si vede a Roma lungo la Tiburtina o nella zona di viale Marconi. Forse capirà la differenza.accogliere nel giro di poche generazioni una massa di immigrati totalmente estranei ai costumi e ai modi di vita dei cittadini non fu un’impresa facile per nessuno, nè per i vecchi nè per i nuovi abitanti della città. c’era prima di tutto il problema delle case da fornire ai nuovi arrivati. Non è detto che sia stato il problema più difficile da risolvere.
Chi erano i proprietari dei terreni?
Nelle città medievali, erano le chiese, in particolare il capitolo della cattedrale e i grandi monasteri, ad essere di gran lunga i maggiori proprietari di terreni, tanto all’interno che nell’immediata periferia della città. Capirono subito che era loro interesse promuovere la lottizzazione dei loro terreni e favorire l’installazione dei nuovi arrivati su parcelle di terra disposte prima lungo le strade che partivano dalle porte della città poi, secondo le maglie di un piano più o meno ortogonale, in modo da sfruttare il più razionalmente possibile lo spazio a disposizione. Il loro guadagno, del resto, proveniva non tanto dalla vendita dei lotti di terreno, che il più delle volte rimanevano di loro proprietà, quanto dai proventi ricavati dalla frequentazione, da parte dei nuovi abitanti, delle chiese parrocchiali costruite dagli stessi enti promotori che le tenevano poi sotto il loro controllo. Si trattava senza dubbio di autentiche operazioni immobiliari simili, nei loro meccanismi, a quelle che hanno portato, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, alla costruzione degli enormi complessi residenziali che caratterizzano l’immediata periferia delle nostre città. solo che i risultati non sono esattamente gli stessi: i quartieri costruiti tra XII e XIII secolo per iniziativa degli enti ecclesiastici figurano oggi tra le zone più belle e pregiate dei centri storici mentre quelli costruiti dopo la seconda guerra mondiale le più orribili. Se qualcuno ne dovesse dubitare, gli consiglierei di fare due o tre passi a Firenze nelle vie intorno a San Marco o a Perugia nel quartiere di Sant’Angelo e poi di fare il confronto con quello che si vede a Roma lungo la Tiberina o nella zona di viale Marconi. Forse capirà la differenza.
Città in costante espansione.
Molto più complesso il problema dell’atteggiamento della popolazione di più vecchia origine nei confronti degli immigrati. Per un lungo periodo, il flusso continuo dell’ inurbamento non ha incontrato nessun ostacolo nè suscitato nessuna difficoltà. Anzi: in quelle città in piena espansione economica gli imprenditori, fossero mercanti o artigiani, erano ben lieti di poter contare su una mano d’opera abbondante e quindi a buon mercato. Molti dei nuovi arrivati seppero del resto cogliere l’opportunità di un’economia in forte sviluppo per creare la propria azienda e innalzarsi in poco tempo sui gradini più alti della società cittadina. E’ il caso ben noto, a Firenze, dei Cerchi e dei Villani. Poteva capitare che qualcuno, nel giro ristretto delle vecchie famiglie (come dante), torcesse il naso di fronte ai “subiti guadagni” dei parvenus, ciò non toglie che i nuovi arricchiti fossero perfettamente adottati dall’insieme della classe dirigente di cui condividevano tutti i modi di pensare e di vivere. Arrivò però un momento in cui le cose cominciarono a cambiare. E quello che accadde nelle città italiane alla fine del XIII secolo non è privo di analogia con l’attuale crisi delle banlieue francesi. Anche se l’economia cittadina continua a tirare, non riesce a offrire un lavoro a tutti coloro che abbandonano le campagne per la città. Nelle campagne si verifica il contrario: sono i proprietari, che spesso risiedono in città, a lamentarsi di non trovare più braccia per coltivare le loro terre. In città il problema dell’ approvvigionamento di derrate di prima necessità, come il grano, diventa sempre più difficile e pesa sempre di più nei bilanci comunali. Si colgono infine segnali di insofferenza, per non dire di razzismo, nei confronti degli immigrati più recenti, di quelli che in ogni senso rimangono ancora ai margini della società cittadina.
La crisi era dunque inevitabile. Ma al contrario di ciò che si è visto in Francia, seguì il canale non di una rivolta sociale, bensì di uno scontro politico tra due schieramenti di forze sociali contrapposte: da una parte la borghesia o, come si diceva allora, il “popolo grasso”, desiderosa di chiudere i rubinetti dell’ inurbamento, dall’altra i ceti medi-bassi (il “popolo minuto”) ben determinati ad impedire l’ espulsione, richiesta dalla borghesia, degli inurbati di data più recente.
Chi vinse? A Perugia, città dove la questione dell’immigrazione diede luogo a dibattiti incandescenti all’ interno delle assemblee comunali, fu senza dubbio il popolo minuto e quindi la massa degli immigrati. altrove non saprei dire vista la mancanza di fonti
o di studi. Ma una cosa mi pare sicura: il sistema politico in vigore nei comuni di quel periodo riuscì quasi sempre ad offrire uno sbocco alla protesta e al dissenso.
Testo tratto da: “Left”, febbraio 2006, pag. 78-80