Alzi la mano chi, nella nostra Italia, non si è mai imbattuto in un’immagine sacra o religiosa, al di là delle scelte di fede personali. Sembra infatti che nel nostro Paese non vi sia borgo, paesino o città che non conservi gelosamente un’opera d’arte legata alla fede cristiana: pittura, scultura e architettura hanno celebrato una sensibilità religiosa che andava sempre oltre la committenza dei ceti più abbienti, trovando terreno fertile nella devozione popolare. In questo firmamento culturale, l’arte iconografica ha saputo – più di ogni altra – rimandare al carattere sacro dell’opera in sé, quasi invitando chi le sta davanti a considerare cosa si nasconde oltre le pennellate dell’artista. Un mistero da penetrare, più che un’immagine da ammirare: ecco il fascino dell’icona.
«L’icona non è un semplice dipinto. È immagine di una presenza divina». Daniela Esposto, iconografa, ci accoglie nel suo studio, mentre sta per terminare la sua ultima opera, una Sacra Famiglia. Sul tavolo, pigmenti di ogni tipo, pennelli, tavole di legno. Notiamo anche un dosatore con del liquido giallo: a prima vista sembra quasi zabaione. «È un’emulsione fatta con uovo, vino e un po’ di olio essenziale. Senza questa, i pigmenti che uso per dipingere resterebbero solo polvere colorata: miscelandoli insieme, formano infatti quelli che comunemente chiamiamo “colori”. Ed è grazie a questa emulsione che il colore si attacca alla superficie». Una parola dietro l’altra, un fiume in piena: l’intervista che Medioevo in Umbria le aveva proposto è già cominciata.
Daniela, restiamo un attimo sui colori. Non sarebbe più comodo per te utilizzare quelli già pronti?
«Chi scrive un’icona fa una scelta ben precisa, che il più delle volte comporta l’uso di tecniche “scomode”, come le hai definite. Una di queste è il colore. Non fraintedermi, si possono dipingere le icone con i colori acrilici, e di queste si possono vedere tanti esempi in altrettanti negozi. Solo che non sarebbe la stessa cosa, e non solo dal punto di vista estetico. La tempera all’uovo, quella che utilizzo, è fedele all’antica tradizione bizantina, che considerava l’uovo simbolo della vita. In passato, anche altre civiltà hanno colto questo parallelismo. Penso alle uova di Pasqua, che oggi sono diventate rigorosamente al cioccolato! Simboleggiavano proprio la rinascita, a partire dal passaggio dall’inverno alla primavera: in questo, la fede cristiana si ricollega al mistero della Risurrezione di Cristo».
In poche parole, dall’uovo nascono i colori dell’icona. Ci sono altre regole da osservare mentre si dipinge?
«Certo. È fondamentale non perdere mai di vista il canone: un iconografo non improvvisa mai. Il volto, infatti, si costruisce tramite delle geometrie ben precise; stesso discorso per il resto della figura. Poi c’è una gerarchia, che va dall’elemento più importante a quello meno: sguardo, volto, corpo, vesti, scenografia. Lo sguardo, come dice Florenskij (teologo e filosofo russo, autore tra gli altri di “Le porte regali. Saggio sull’icona”, nda), è la somiglianza a Dio resa presente sul volto: è una testimonianza, un annuncio muto del mistero, reso possibile dalla forza dell’immagine».
Un iconografo non improvvisa, hai detto. Però nel tuo sito abbiamo letto che i soggetti che ti vengono commissionati sono “personalizzabili”…
«C’è un canone da rispettare, senza dubbio, ma un iconografo non deve mai perdere di vista la creatività, che è il dono per eccellenza degli artisti. A differenza delle altre arti, nell’iconografia la creatività deve fare i conti con la teologia e la tradizione: per fare un esempio, non posso assolutamente raffigurare una persona ancora in vita, per quanto sia in odore di santità. D’altro canto, il mio maestro (Paolo Orlando, nda) ha dipinto il battesimo di Gesù dandogli le sembianze della Sindone: questa scelta ha dato originalità all’icona, conferendo un valore aggiunto al già evidente significato teologico del battesimo».
Parliamo un po’ di te. Da quando ti dedichi all’iconografia?
«Mi sono innamorata di quest’arte nel 2005. Ero iscritta all’Accademia di Belle Arti, e fu proprio l’esame di Estetica a farmi conoscere il mondo delle icone, e la bellezza che porta con sé. L’anno successivo, quasi per caso, una mia amica mi segnalò un corso di iconografia tenuto dalla persona che sarebbe diventata il mio maestro. Allora vivevo a San Giovanni Rotondo, il paese dove sono nata e cresciuta: colsi subito l’opportunità, e da allora non ho più smesso. Mi sono anche iscritta alla facoltà di Teologia di Assisi per dare maggiori contenuti teologici all’arte che provo a portare avanti».
Sei credente?
«Sì. Vivo il mio lavoro come un servizio all’interno della Chiesa: se, per assurdo, quest’ultima mi chiamasse altrove, io smetterei di dipingere. Poi al primo posto c’è sempre mio marito: anche costruire una famiglia è un’arte (ride)».
Ha senso ancora oggi parlare di icone?
«Penso proprio di sì: c’è un ritorno positivo alle arti tradizionali, realizzate artigianalmente. Un’icona prodotta in serie tramite découpage si svuota della sua anima, perde gran parte della sua referenzialità. Le commissioni che arrivano in laboratorio parlano chiaro: tante persone regalano un’icona per amici e parenti, in occasione di matrimoni, battesimi e altre ricorrenze. Essendo un’immagine sacra, trova il suo posto anche durante il rito: in tanti – me compresa – hanno posizionato l’icona sotto l’altare, visibile a tutti durante la celebrazione. L’icona così non è un semplice regalo, ma diventa un’opportunità per meditare una Bellezza che ci sovrasta. Per pregare».
La lasciamo intenta a dipingere. E allontanandoci, ci sovvengono le parole di Dostoevskij: «L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui».
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