LA GRANDE DIGA DI FRATTA PERUGINA
Tre ingegneri sulle tracce di un poderoso sbarramento nella Umbertide medioevale.
Pubblichiamo, per gentile concessione degli autori, uno stralcio del saggio “Oh che bel castello…”, di prossima uscita in libreria. Il lavoro ricostruisce idealmente lo sviluppo edilizio di Umbertide. La ricerca storica ha cercato di portare luce anche su diversi argomenti finora inesplorati, descrivendo il frutto del lavoro di ingegneri, architetti, artigiani ed operai nel corso di una quindicina di secoli: dalla prima torre, per la quale viene prospettata la funzione di presidio di avvistamento nel punto di contrasto fra longobardi e bizantini nel VI-VIII secolo, fino alle costruzioni degli ultimi anni del secondo millennio.
Il ritrovamento di una palificazione di fondazione.
Dei lavori di dragaggio sul letto del Tevere nel 1983 fecero ritornare alla luce una gran quantità di pali a circa 80 metri a valle del ponte. Fu Renato Codovini, impareggiabile ricercatore di storia locale a notarli, fotografarli ed intuirne l’importanza come resti delle fondazione di un’antica chiusa. Pochi anni dopo, nella loro pregevole tesi di laurea (“Ritrovamento della diga sul fiume Tevere, località Umbertide provincia di Perugia”, Università degli Studi di Firenze, anno accademico 1987/1988), Alberto Crocioni e Roberto Codovini hanno ampliamente documentato la struttura e la tecnica costruttiva dell’opera, caratterizzata da un’originale fondazione a scacchiera in tavoloni di quercia e pietre di fiume.
La tesi
Abbiamo voluto approfondire l’argomento, cercando di portare l’ingegneria in aiuto della storia, incuriositi dall’imponenza della palificazione di fondazione nella direzione della corrente del fiume, per una lunghezza stimabile in almeno 15 m: questo indizio lasciava presupporre un investimento ingente, sia finanziario che tecnico-organizzativo e, quindi, una finalità di grande rilevanza strategica. Abbiamo cercato di immaginare quale fosse l’intenzione dei committenti, che non poteva essere soltanto quella di azionare le pale del vicino mulino, che avrebbe potuto essere realizzato altrove con uno sbarramento molto più modesto, magari su un piccolo affluente del Tevere. L’ipotesi più verosimile ed affascinante era quella che la diga servisse a creare un invaso talmente esteso da allagare stabilmente il fossato tutt’intorno alla cinta di mura; forse non aveva esagerato, nel 1565, Cipriano Piccolpasso nell’usare un superlativo – “chiarissimo lago” – alla vista del fiume di Fratta, che descrisse e rappresentò nella panoramica più antica del luogo.
Ed è proprio questa la tesi che intendiamo dimostrare, ricostruendo la storia della “grande diga” e della sua configurazione strutturale e funzionale.
Le notizie d’archivio
Non si hanno notizie dirette e particolareggiate di quest’opera, sull’esistenza della quale tutti gli scrittori di storia locale hanno taciuto. Solo l’ingegnere militare Piccolpasso, nel disegno sopra citato ha tracciato la struttura della diga, anche se con linee appena accennate, forse perché a quel tempo aveva già perso di importanza sotto il profilo militare, che rappresentava l’argomento di principale interesse per l’autore: esempio encomiabile di bravo ingegnere che non spreca nemmeno un tratto di matita che non sia indispensabile. O segno di scarsa soddisfazione per il rimborso spese richiesto nella parcella: “30 bajocchi per il cavallo da Castello alla Fratta, 30 bajocchi per desinare ed cena alla Fratta, 10 bajocchi a coloro che me aiutaro a mesurare, 30 bajocchi per il cavallo per Perugia; e più 50 bajocchi fatto dare alla femeglia de messer Paulo, dette messer Gherardo soldato de fortezza per le fatighe di detto messere Paolo”. Il giro contornto di questi ultimi 50 bajocchi – consegnati ad un soldato per darli ai famigliari del signor Paolo che aveva faticato – desta qualche sospetto, caro ingegner Cipriano!
Si dispone invece di notizie indirette sull’esistenza dello sbarramento, la più antica delle quali risale ad una registrazione del 6 febbraio 1527, dove si usa l’espressione versus clusam molendini, nel descrivere le attività svolte negli edifici situati nelle adiacenze dello sbarramento, ai margini del fiume, in fondo a piazza S. Francesco. In quell’area infatti la diga permetteva di fornire l’energia necessaria a diverse fabbriche: l’acqua, convogliata lungo un canale di derivazione, tramite l’apertura delle rispettive portelle secondo turnazioni concordate, azionava la macina del grano del Molino di Sant’Erasmo; faceva girare le mole dei fabbri per l’arrotatura delle falci ed altri ferri (spade, lance…); azionava i magli di legno nella gualchiera, per comprimere ed assodare il panno di lana; fluiva nella vasca del lavatoio pubblico; infine tornava nell’alveo del Tevere a valle dello sbarramento.
La mancanza di altre notizie più particolareggiate ci ha spinto a ricercare elementi oggettivi per saperne di più.
La simulazione dell’invaso
Innanzitutto si è cercato di stimare l’estensione dell’invaso.
In una prima fase è stata individuata la configurazione che avrebbe oggi, in caso di ripristino della diga, dopo aver valutato l’altezza dello sbarramento: per questo è stato preso come riferimento fondamentale la quota del pavimento dell’antico lavatoio pubblico della Caminella, dove negli anni ’60 era ancora visibile la vasca originaria, anche se il suo utilizzo era stato riconvertito in allevamento di mignatte per la farmacia, utilizzando l’acqua stagnante di superficie che vi si raccoglieva. Questo riferimento è certo, in quanto la quota è rimasta invariata rispetto al periodo di utilizzo; d’altra parte la presenza – nelle immediate vicinanze ed allo stesso livello, delle altre utenze della diga appena descritte, ben più rilevanti – fa escludere l’ipotesi che il lavatoio, con l’abbondanza dell’invaso, utilizzasse acqua di vena.
La quota del pavimento del lavatoio pubblico, risultata pari a 238, 25 m s.l.m., può quindi essere ragionevolmente assunta come livello di sfioro dell’invaso, i cui contorni sono stati definiti sulla base della corrispondente curva di livello nell’attuale configurazione del terreno.
I confini come sopra determinati sono stati successivamente corretti sulla base delle modifiche apportate dall’uomo e dal fiume nel corso dei secoli, di cui sia restata traccia.
Questi elementi portano ragionevolmente a concludere che, nel periodo di massima efficienza militare di Fratta perugina (xv secolo), l’invaso circondava tutto l’isolotto del centro storico, al quale si poteva accedere soltanto attraverso il ponte rampante della Piaggiala, il ponte levatoio della Rocca ed il ponte sul Tevere.
L’altezza dello sbarramento
La differenza fra il livello di sfioro a 238 m s.l.m. sopra dedotto e la quota (232 m s.l.m.) dell’area del greto del fiume da cui oggi emergono i pali di fondazione, consente di stimare in circa sei metri l’altezza della diga: per quei tempi la grande diga della Fratta era davvero un’opera ciclopica.
Planimetria dei luoghi in un disegno degli autori.
1-Lavatoio pubblico;
2-Molino di Sant’Erasmo;
3-Chiese di Santa Croce, San Francesco e San Bernardino;
4-Grande diga;
5-Tevere;
6-Ponte sul Tevere;
7-Torrente Regghia;
8-Rocca, con ponte levatoio e “calzo de fuora”;
9-Ponte rampante della Piaggiola, torrione rotondo e Porta della Campana.
Le funzioni dello sbarramento
La rilevante complessità del progetto, l’imponenza della struttura e l’onerosità economica della sua realizzazione, confermano la tesi di un utilizzo militare della grande diga: la sua utilità primaria era quella di mantenere costantemente allagato il fossato intorno alle mura, per la sicurezza degli abitanti del castello, e di ridurre le sollecitazioni ai piloni di fondazione del ponte appena a monte. Gli altri benefici di ordine economico (fornitura d energia per le attività produttive e prelievo di pesce dalla pescaia), seppure più importanti per il benessere della popolazione, furono collaterali ed ininfluenti alla decisione della costruzione dell’opera.
La nascita
L’inesistenza di scritture relative a tali lavori, non consentono di stabilire con certezza il periodo a cui risalgono. E’ tuttavia verosimile l’ipotesi che solo dopo il passaggio al dominio di Perugina (1189) siano esistite le condizioni per costruire un’opera così imponente.
Solo una città come Perugia poteva avere la necessaria capacità economica, le conoscenze tecnico-militari e le motivazioni politiche: è proprio quello il periodo in cui perseguiva un rafforzamento come Comune, per consolidare un suo spazio vitale fra i grandi poteri del momento nel Centro-Italia, capitalizzando il vantaggio dell’equidistanza da Firenze e da Roma.
Al contrario, nei tempi precedenti non esistevano condizioni per giustificare uno sforzo tanto ingente: dapprima – fino alla morte di Matilde di Canossa – era la marginalità, come remoto luogo di confine del Marchesato di Toscana, a sconsigliare l’investimento. Poi dopo lo smembramento di questo in tanti territori dominati da piccoli signori, era la scarsità di risorse economiche a rendere impraticabile l’impresa.
La stessa mancanza di notizie relative alla costruzione della diga, imputabile alla scomparsa degli Annali di Perugia – dal 1190 al 1230 – relativi proprio al periodo presumibile della costruzione, costituisce un indizio confermativo della tesi che si sta sostenendo, in quanto non è verosimile che di un’opera così imponente non siano stati compiuti atti formali.
Si può concludere affermando che la costruzione della grande diga può essere collocata fra il 1189 (inizio del dominio di Perugia su Fratta) ed il 1230 (disponibilità degli Annali perugini).
Il sistema progettuale complessivo
Cerchiamo ora di definire altri dettagli dello sbarramento e della sua organizzazione funzionale.
L’invaso era suddiviso da un “guardiano centrale”, appena inclinato rispetto alla direzione di scorrimento del fiume. Fra questo e la sponda sinistra – invaso ovest – doveva scorrere la corrente principale, che defluiva a valle dalla sommità dello sbarramento perpendicolare alla riva.
L’altro segmento, disposto in obliquo in modo da estendere la lunghezza del fronte del salto, era forse di altezza superiore in modo da contenere i danni sulla sponda sinistra, di grande pregio per la presenza delle attività produttive: il molino, i fabbri, la gualchiera; insomma, una specie di zona industriale del Borgo Inferiore.
La capacità dell’invaso, considerando l’altezza dello sbarramento pari a 6 m, la larghezza 70 m e la lunghezza del lago a monte di 1.200 m, è stata valutata in 250.000 m³.
La potenza massima ottenibile, con una portata utile del fiume assunta pari a 10 m ³/s, è stata stimata in 600 Kw, sulla base della relazione seguente:
P = #·Q·g·§H
P = potenza;
# = densita’ dell’acqua;
Q = portata volumetrica;
§H = dislivello geodetico
Ipotizzando una larghezza del canale di adduzione al molino pari ad 1 m², una velocità della corrente di 2 m/s, un salto di 3 m ed un rendimento ragionevole per quei tempi, l’ordine di grandezza della potenza utile può essere collocato intorno ai 100 Kw.
Per una corretta funzionalità del sistema di sicurezza militare erano state adottate anche delle precauzioni tese a prevenire l’interramento del fossato per effetto dei detriti depositati dalle piene della Regghia, nel punto in cui sfociava nell’invaso sotto la Rocca, rallentando la sua furia. Pensiamo che sia stata proprio questa la funzione della “…chiusa del fiume della Regghia alter dicta el Battifosso quale e contigua ad lhorto della Roccha et ad presso ad li mura del ditto castello…”.
La morte
Cerchiamo ora di chiarire come e quando lo sbarramento abbia cessato la sua funzione.
A questo riguardo si ha notizia che il 20 ottobre 1610 crollarono due arcate del ponte ed il torrione del Mulinaccio all’angolo delle mura lungo il fiume; la contemporaneità dei crolli, appena a monte della grande diga ci ha fatto sospettare che il disastro fosse stato originato – con un “effetto domino” – dal degrado dello sbarramento. Le registrazioni d’archivio hanno confermato l’ipotesi: già nel 1606, infatti, lo sbarramento aveva mostrato l’urgenza di riparazioni.
La questione divenne oggetto di una disputa legale in occasione di un’altra piena, nel 1611; l’affittuario si lamentò perché il molino era “immacinabile ed infruttuoso” e la diga era stata “male custodita e male riattata”. I soggetti chiamati in causa – il Vescovato di Gubbio e la Comunità di Fratta – tentarono di scaricarsi l’un l’altro la responsabilità e l’onere della riparazione; il primo sosteneva che la diga era stata danneggiata dal crollo del ponte; la seconda rivendicava la tesi opposta, attribuendo al Vescovo le spese, come in effetti “era sempre stato”. A noi sembra proprio che – Monsignore ci perdoni! – avesse ragione la Comunità essendo davvero strano che i pesantissimi detriti del ponte, anziché adagiarsi sul fondo del fiume, abbiano travolto lo sbarramento a cento metri più a valle.
Comunque, per le nostre deduzioni, interessa solo che il molino da quel tempo non macinò più, a dimostrazione che la diga era appena crollata. Ma si hanno tante altre conferme: anche i fabbri furono costretti a recarsi presso altri molini nelle vicinanze che disponevano di mole adatte; ma la perdita di quelle di Sant’Erasmo fu insanabile se, pochi decenni dopo (1647), quattro fabbri di Fratta portarono a Roma 14.000 falci grezze (i martelli ancora non si producevano nell’Umbria rossa), affidandone la rifinitura ad arrotini della capitale. Dunque, anche le mole si erano definitivamente fermate. Analogamente l’attività della gualchiera fu spostata in una fabbrica simile, a Pian d’Assino, la cui struttura è ancora visibile sulla sponda sinistra di questo torrente, appena a monte del ponte che lo scavalca poco prima di sfociare nel Tevere.
Tutti questi fatti concorrono a confermare la dipendenza delle fabbriche di Piazza San Francesco dal grande sbarramento e la sovrapponibilità dei rispettivi periodi di funzionamento (dal 1200 circa, al 1611). Insomma la diga nacque quando fu necessario tutelare la sicurezza del castello con un lago e nessuno volle curarne la manutenzione da quando queste esigenze furono superate dall’evoluzione della tecnica bellica. Per tutto il tempo in cui fu di interesse militare – e solo per quello – fu anche fonte di lavoro e di benessere, nel rispetto di una triste priorità a cui l’uomo ha dovuto sempre soggiacere.
La condanna a morte della Grande Diga fu emessa per la ragione opposta che ne determinò il concepimento.
Articolo pubblicato su “L’Ingegnere Umbro” n. 43, Dicembre 2002.