Boldrino, cuor di condottiero e strategia del vincitore.
Condottieri – La storia e le gesta del capitano di ventura panicalese, fondatore della gloriosa Compagnia di San Giorgio
di Eros Lunani
Giacomo Paneri, detto “Boldrino”, nasce a Panicale nel 1331 da Francesco Paneri e da Lucrezia Ceppotti. Il borgo panicalese è nel XIV secolo “terra di confine di guerre”; lo spietato Boldrino è quindi figlio del suo tempo, contrassegnato dagli incendi dei castelli e dalle devastazioni delle campagne, dalle urla dei guerrieri e dalla polvere delle battaglie. Si è detto che i Paneri fossero dei panettieri (forse sardi d’origine; in lingua spagnola: “pane [DE]ro” = fornaio); anche esaminando il blasone dei Paneri (Rocca di Boldrino), tra gli altri simboli (la lettera “B”, il ferro di cavallo, il cimiero) si nota una tavola con tre pani. I Paneri, secondo un’accurata ricostruzione genealogica, appartengono ad un casato piccolo-borghese, che fu al servizio dei Tarlati di Arezzo e dei Casali di Cortona, importanti e ricche famiglie ghibelline. Nell’ambiente piccolo borghese della sua famiglia – un po’ artigiana, un po’ contadina e solo in parte militare – imparentata con i Tarlati e gli Ubaldini (da qui forse il nomignolo di “Boldrino”), potente famiglia ghibellina e Conti della Carda, plaga del Montefeltro, arrivavano solo lontanissime eco dell’infuriare delle lotte tra Impero e Chiesa, tra i Visconti e i fiorentini, tra i perugini e gli aretini.
Secondo la testimonianza del Fabbretti (Biografie di capitani venturieri dell’Umbria, 1843), “tempra robusta, forme atletiche (Orsini: piedi sei e mezzo corrispondenti a cm. 195 se in piedi romani, addirittura cm. 218 se in piedi medievali: un piede = 1/3 di metro), sguardo severo, prontezza d’animo meravigliosa, temerario coraggio e avidità di gloria, presagivano in Boldrino un Capitano di alta rinomanza”.
L’assassinio del padre
L’episodio tuttavia determinante per le scelte future del nostro prode fu l’uccisione del padre, pugnalato più volte sul greto del fosso Gioveto per mano di oscuri sicari. Accecato dall’odio, il Boldrino fu spinto a ricercare un’immediata vendetta, ma dovette scontrarsi con un muro di omertà. Il suo impeto giovanile e la sua straordinaria forza fisica non trovarono sbocco nell’immediato, ma lo convinsero dell’opportunità di darsi alle arti guerriere. Fu in Perugia dal 1348 al 1351, dove si dedicò alla scuola d’armi primeggiando per impegno, vigore e destrezza. Perugia “guelfa, guerriera e opportunista” mirava alla conquista della sponda toscana del Trasimeno (Chiugio, ricco di cereali), con due obiettivi principali: proteggersi dalle scorribande imperiali (Arrigo VII, Lodovico il Bavaro, Carlo IV) e a vendicarsi delle cocenti sconfitte subite dai ghibellini aretini (Citerna, Città di Castello).
Si avvicinava intanto il giorno in cui Boldrino si sarebbe vendicato degli assassini del padre; maturati certi sospetti e abbandonato clandestinamente il collegio militare, rientrò a Panicale. “Gigantesco, corrucciato, tutto coperto di ferro” raggiunse la casa dei due odiati assassini del padre e li uccise senza pietà. Per due anni poi rimase presso la nobile famiglia Tarlati di Arezzo e strinse fraterna amicizia con il forte Bartolomeo da Pietramala e con Uguccione Casali da Cortona. Attratto dal desiderio di gloria e di avventura, ambisce di arruolarsi in una qualsiasi compagnia di ventura, vero insieme di ribaldi e fuoriusciti. Anche Boldrino è ricercato dai perugini per assassinio e diserzione; e sulla sua testa pende una forte taglia. Dall’aggregazione di diversi ghibellini fuoriusciti da Arezzo, Siena, Perugia, Firenze, Assisi e Todi si stanno formando pericolose bande di armati, spinti dal desiderio di vendetta e di rivincita. Intorno al 1361 il Paneri riesce a prendere contatto con Giovanni Acuto (J. Hawkwood, inglese, reduce vittorioso della battaglia di Poitiers nella guerra dei Cento Anni), al servizio dei ghibellini pisani contro i guelfi fiorenti. In questa compagnia, molto eterogenea – inglesi, bretoni, svizzeri, tedeschi e italiani – e molto temuta, Boldrino militerà a lungo sino al 1375, divenendone Primo Capitano nel 1364.
Muzio Attendolo Sforza
Durante questa milizia il Paneri si impadronì di ogni astuzia militare spregiudicatezza tattica. La compagnia si arricchì nel frattempo di una recluta destinata a un glorioso avvenire: Muzio Attendolo Sforza da Cotignola, un robusto combattente romagnolo.
A partire dal 1376 il Paneri abbandonò l’Acuto per formare una propria compagnia, composta di mille uomini ciascuna (tre cavalieri e due arcieri). Cinquanta lance formavano una compagnia comandata da un capitano (tra i capitani più noti, Biordo Michelotti e Taddeo Pepoli di Bologna); ogni compagnia aveva il suo alfiere (tra cui il più illustre Muzio Attendolo). I vessilli issati potevano essere di tre tipi: uno a strisce trasversali biancorosse con ferro di cavallo; il secondo a scacchi biancoazzurri, con il castello di Panicale; il terzo completamente rosso con al centro il Grifo d’oro rampante. L’esercito era costituito di 00 uomini a a cavallo, armati pesantemente, che si schieravano e combattevano secondo le regole apprese dal Da Barbiano, e di 400 arcieri, molto giovani e veloci, addestrati alla tattica inglese dell’Acuto.
La compagnia di San Giorgio
Ne 1393, due anno dopo la morte del Boldrino, questo esercito divenne il nucleo principale della celeberrima Compagnia di S. Giorgio – che era già stata sotto le insegne di Alberico da Barbiano – al comando di Biordo Michelotti. Nel 1394 l’esercito, con cui il condottiero perugino si apprestava alla conquista dell’Umbria, era forte di 3000 uomini, tutti veterani esperti, disciplinati e compatti.
La compagnia boldriniana fu inoltre verso la fine del secolo al servizio di Gian Galeazzo Visconti e al comando del grande Alberico.
Tra le imprese del Paneri, un certo significato ebbe la cacciata dell’abate Gerard Dupuys da Perugia,. Nel 1372, ormai al termine della “cattività avignonese” della Chiesa, il papa Gregorio XI nominò suo vicario apostolico di Perugia, l’abate Dupuys de Montemajeur, fortemente inviso ai perugini. Molti cittadini caddero vittime della ferocia dell’abate e furono appesi per il collo o per i piedi fuori delle mura merlate di Palazzo dei Priori. La città fu trasformata dal punto di vista architettonico per ricavarne tre munitissimi fortilizi,tra loro comunicanti; splendidi palazzi, loggiati e archi furono abbattuti. La pressione fiscale fu straordinaria per far fronte alle ingenti spese, che ammontarono intorno a 240.000 fiorini d’oro. La sbirraglia dell’Acuto faceva buona guardia su tiranno; mentre coprifuoco, corvée, balzelli, stupri e violenze caratterizzavano la vita di quel tempo. I più fortunati andarono ad arricchire le fila dei fuoriusciti, finché non si andò organizzando la resistenza affidata ai Michelotti, agli Oddi e al Boldrino.
Contro il despota
Approfittando della spedizione dell’Acuto contro Città di Castello, il Paneri fece penetrare i fuoriusciti in città e ottenne il sopravvento sull’esigua guarnigione rimasta; tutto il popolo perugino si sollevò contro il despota. L’Acuto, pur essendo tornato rapidamente a Perugia, non poté far altro cfhe mettere in salvo il prelato e fuggire tra gli sberleffi e gli insulti dei perugini (gennaio 1376). Non si sa se Boldrino ebbe compensi per questo intervento; mentre è certo che i perugini nei tre anni successivi si servirono, per la difesa da diversi aggressori, di Bartolomeno Smeducci di San Severino. Il contrasto tra l’Acuto e il Paneri si aggrava ulteriormente allorché l’inglese, al soldo del cardinale Roberto da Ginevra (il futuro anti-papa Clemente VII), mise in atto la strage di Faenza con 4.000 morti (29 marzo 1376).
Dopo Faenza, Roberto da Ginevra aveva intenzione di stabilirsi a Cesena; ma i cesenati si opposero aspramente, uccidendo un centinaio di mercenari bretoni.
Il prelato, convocato segretamente l’Acuto, gli ordinò di fare un altro bagno di sangue (i morti furono 5.000). La responsabilità di questi orrendi eccidi è da attribuire ad Alberico da Barbiano.
In difesa di Perugia
Nel 1386 Perugia stava di nuovo correndo un gravissimo pericolo ad opera delle truppe bretoni e guascone, responsabili delle stragi di Faenza e di Cesena, riorganizzate sotto la guida del feroce “Beltotto” (Berthold). Il Paneri, che in quel frangente si trovava accampato nei pressi di Recanati, venne raggiunto dal conte Giovanni Scotti, gentiluomo perugino e ambasciatore del cardinale Andrea Bontempi, che lo invitava a correre in difesa della città.
Perugia è ormai senza difesa, piena di gente fuggita dalle campagne, con penuria di cibo e d’acqua. Dopo appena quattro giorni, l’armata di Boldrino riuscì a schierarsi sulle colline di Corciano; come catapulta la cavalleria pesante si scagliò contro l’orda dei Bretoni, mentre gli arcieri sommersero di micidiali saette uomini e cavalli nemici. In meno di un’ora i mercenari stranieri furono messi in fuga, lasciando sul terreno di San Mariano tantissimi morti e numerosi prigionieri. Il Paneri, non soddisfatto, si mise all’inseguimento dei Bretoni superstiti e li distrusse nei pressi di Cortona. Il 24 giugno 1386, carica di gloria, di prede e di armi strappate ai nemici, la compagnia del Boldrino fa il suo ingresso trionfale a Perugia da Porta Santa Susanna, tra il suono delle campane e i cittadini festanti. Il popolo e i Priori perugini nominarono il Boldrino Gran Cavaliere e Capitano Generale, e stabilirono con un decreeto che il Castello di Panicale potesse unire nel suo blasone il grifo alla torre.
L’iniziativa nelle Marche
In seguito il condottiero panicalese riprese l’iniziativa nella Marca, al servizio del nuovo papa Bonifacio IX, conquistando nuovi castelli e riducendo in prigionia Bartolomeo Smeducci. Ridotto all’impotenza il valoroso capitano Bartolomeo Smeducci, il Boldrino, anziché consegnare al papa le terre dello Stato Pontificio riconquistate (come aveva già fatto con Ascoli, Fermo, Civitanova, Tolentino, Recanati) cercò di tenerle per sé e per suo figlio. Messo a tacere lo Smeducci con 10.000 ducati d’oro, pose le sue insegne a Castel Ficano in attesa di un titolo nobiliare, di cui era ancora sprovvisto.
Per lo smaliziato Andrea Tomacelli, fratello di Bonifacio IX, fu alquanto facile attirarlo nell’imboscata della Rancia, dopo avergli fatto intravedere come possibile l’agognata investitura del marchesato di San Severino. Convocato dal diabolico duca al Castello della Rancia il 10 o 11 marzo 1391, mentre gli veniva offerta l’acqua del benvenuto, inconsapevole ed inerme, fu ripetutamente colpito alle spalle da diverse pugnalate. Il “prode” Tomacelli volle anche vendicarsi, tagliandogli la testa.
Il vile agguato tuttavia spinse i soldati dello sfortunato capitano a fare scempio dei maceratesi; ale massacro terminò soltanto quando venne riconsegnata la salma decapitata del Boldrino, unitamente a un corteo di donne maceratesi, vestite a lutto e imploranti, e a un risarcimento di 3.000 fiorini. La salma fu composta in un’Arca di artistica fattura; intorno a quest’Arca le truppe giurarono di non sciogliere mai più l’armata. La compagnia seppe in seguito conquistare molto onore e molta gloria al comando dell’illustre condottiero perugino Biordo Michelotti.
Tratto da “Il Messaggero” di Mercoledì 2 settembre 2009