Sono rimaste solo in due del nucleo fondato negli anni ’20 del secolo scorso da sorella Maria, francescana, che ha abbandonato l’ordine per vivere una vita di preghiera e di povertà
di A.R.
L’eremo francescano di Campello è una macchia bianca nel verde della montagna che sovrasta le Fonti del Clitunno. La strada che s’inerpica ripida tra gli ulivi sbuca su un piccolo spiazzo di fronte al muro di cinta. Oltre il cancello, un vasto piazzale alberato e in fondo la piccola chiesa romanica seminascosta dall’edera.
Daniela Maria, la sorella che viene ad aprirci, veste un saio grigio, non porta alcun velo, calza dei semplici sandali. Dal saio spunta un colletto bianco, quasi un timido segno di grazia femminile. «L’eremo – ci spiega – risale all’anno mille, ma le prime notizie sicure si hanno nel trecento. E’ stato visitato da S. Francesco e da S. Bernardino da Siena, ma la grotta su cui sorge è del V secolo e pare fosse abitata da eremiti venuti dalla Siria». Ci porge una torcia elettrica e ci fa scendere in un cunicolo buio scavato nella roccia viva; in fondo, una grotta più ampia di forma regolare testimonia la presenza degli essere umani. E’ singolare questo intrecciarsi di memorie e di ricerche spirituali a distanza di secoli.
Uno scampanellare festoso annuncia l’arrivo di sorella Brigitte, un’ottantenne parigina dal volto radioso che ritorna dalla visita a un altro eremo.
La piccola comunità è tutta qui. Sono attualmente in quattro del nucleo fondato negli anni venti da sorella Maria, francescana missionaria di Maria che abbandonò l’ordine per vivere una vita di preghiera e d i povertà secondo lo stile di S. Francesco d’Assisi.
«Maria era superiora del gruppo di religiose che nell’ospedale angloamericano di Roma si occupava dell’assistenza dei feriti della prima guerra mondiale. Qui cominciò a sentire d’essere chiamata a una vita più vicina ai poveri, meno garantita, meno protetta dalle certezze. Voleva riprendere l’esperienza delle comunità apostoliche: semplici fratelli e sorelle che vivono insieme attorno al Vangelo, nella memoria di Gesù, nell’accoglienza di tutti».
UNA SCELTA CORAGGIOSA
Mentre ci spiega, Daniela Maria ci fa passare attraverso il piccolo chiostro francescano restaurato dopo il terremoto. La luce di questo limpido pomeriggio d’ottobre gioca con le pietre del chiostro e le rende vive. Una bellezza essenziale, come la vita della gente che qui abita. «Nel 1919 Maria ottiene il permesso di uscire dall’ordine insieme a una novizia. Dopo aver vagato per diversi luoghi si stabilisce in Umbria. Nel 1923 scopre per la prima volta l’eremo, allora quasi un rudere, e se ne innamora. Decide di acquistarlo e di restaurarlo, ma non ha mezzi. L’eremo viene comprato e ristrutturato soprattutto grazie al denaro procurato da sorella Amata, di fede anglicana, che Maria chiama “la mia prima compagna di preghiera”. Nel 1926 le prime cinque sorelle s’installano nel vecchio conventino francescano».
La vita è dura: all’eremo non c’è corrente elettrica, l’acqua potabile è portata a dorso di mulo, non esiste telefono. Maria sceglie di vivere come la gente della montagna umbra circostante. Ma soprattutto non vuole fondare nessuna nuova congregazione: «Il nostro unico vincolo religioso – diceva – è solo quello dell’amore fraterno». Pensa a una piccola famiglia e diffida di una comunità più ampia: «Se saremo più di sette dovremo scemare altrove», ripeteva spesso.
UNA FEDE SENZA CONFINI
Nell’avventura spirituale di Maria c’è un aspetto sorprendente: la sua piccola famiglia non ha confini di fede. tant’è vero che una delle prime compagne è anglicana. Maria confessa di essere attratta da tutto e desiderosa di attingere da tutto. «Nella chiesa italiana degli anni ’20, quando non si parlava ancora di ecumenismo, questo era un grosso scoglio. E le creò grandi complicazioni con l’autorità religiosa locale, che cominciò a sospettarlo di modernismo, anche per la sua fraterna amicizia con Ernesto Bonaiuti».
Come è sorto questo legame tra la piccola suora francescana e l’intellettuale modernista? «Si erano conosciuti alla clinica angloamericana di Roma ed erano entrati subito in sintonia perché avevano la stessa visione di una “vita nuova”, di un cristianesimo radicale. Maria non era attratta dalle speculazioni teologiche dell’amico, ma dal suo desideri di fedeltà evangelica e dalla sua ricerca interiore. Lo chiamavano amichevolmente Ginepro e gli fu sempre vicina, anche dopo le ripetute scomuniche dell’autorità ecclesiastica. “La mia religione è la comunione con chi amo e chi soffre”, amava ripetere».
Daniela ci conduce sull’altro lato dell’eremo e ci fa incamminare lungo un sentiero che si apre nel mezzo di un orto ben curato. Lo scenario che si offre alla vista è di una bellezza struggente: lo sguardo può spaziare sulla valle spoletana e accarezzare i paesini che s’inerpicano sulle pendici delle montagne. Al termine del sentiero campeggia una grande croce valdostana. «Questa è la via della pace – ci spiega Daniela. La percorriamo ogni mattina insieme con gli ospiti recitando il Cantico dei tre fanciulli: “Opere tutte benedite il Signore”. La croce è il centro del cammino spirituale; ci ricorda il dono di sé e la gratuità dell’amore».
Sul lato sinistro, uno slargo del sentiero fa posto a un semplice altare di pietra. E’ la cappella della trasfigurazione, quasi a ricordare fisicamente l’ambizione della vita eremitica: trasfigurare l’uomo.
OSPITALITA’ PER TUTTI
L’eremo era stato pensato come luogo di ospitalità per tutti. E’ una tradizione che continua ancora? «Certamente. All’inizio gli ospiti potevano venire sempre, ora abbiamo pensato di limitare il periodo di accoglienza da Pasqua a novembre, perché abbiamo bisogno di un tempo più tranquillo per rigenerarci. C’è però anche un motivo pratico: nei mesi invernali è difficile riscaldare la foresteria».
Lo spirito di questa ospitalità è sintetizzato splendidamente in una lettera della fondatrice a Don Orione. «Noi non desideriamo né guidare ritiri, né dare insegnamenti, né prestarci a qualsiasi discussione religiosa… Vivendo in semplicità di cuore e di fede offriamo all’ospite di ciò che abbiamo: la partecipazione alla preghiera, se così desidera, la mensa comune, la pace di questo luogo solitario ove hanno vissuto anime contemplanti, e ove la natura e il silenzio dispongono l’anima a ritrovare se stessa…
Né accogliendo crediamo di “far del bene”; vogliamo bene ed è perciò che accogliamo sempre».
Saliamo con Daniela una ripida china e arriviamo di fronte ai resti di una torre romana. Maria vi ha fatto costruire una celletta con la finestra rivolta verso la montagna per coloro che desiderano vivere e pregare in totale isolamento. E’ il punto più alto dell’eremo dal quale si gode un panorama stupendo. Con un colpo d’occhio si domina l’intera pianura umbra fino ad Assisi e Perugia.
Nella pace del tramonto questo luogo parla da solo.
LE LETTERE DI GANDHI
Eppure l’isolamento e il silenzio dell’eremo non lo hanno tagliato fuori dalla storia comune, perché Maria ha saputo portare il mondo nell’eremo. «Maria ha intrattenuto relazioni con persone molto lontane dai suoi orizzonti culturali. Ha dialogato con Bonaiuti e Mazzolari, con Donini e Turoldo, ma anche con personalità straniere come Sabatier, Friedrich Helier e soprattutto con Albert Schweitzer e il Mahatma Gandhi. Le lettere che Maria ha scambiato con questi due personaggi sono toccanti. Gandhi lo incontrò a Roma nel dicembre del 1931 e il Mahatma scrisse che la mezz’ora trascorsa con le sorelle francescane rimaneva in lui come uno dei ricordi più cari.
Con Schweitzer Maria non intratteneva solo un rapporto epistolare, ma inviava al lebbrosario di Lambarené le bende tessute dalle sorelle».
Ridiscendiamo il piazzale d’ingresso ed entriamo nella chiesetta dell’eremo.
Sobria e spoglia come tutte le chiese romaniche, è avvolta nella penombra. Il piccolo coro dell’abside dove le sorelle si riuniscono per recitare i salmi assomiglia, per la sua povertà, al coro di San Damiano. Lo spirito di Francesco e Chiara è palpabile. Forse è proprio questo spazio vuoto, che evoca la “caverna del cuore”, il centro spirituale dell’eremo.