E’ sempre difficile e, direi, soggettivo parlare di prassi esecutiva quando trattiamo forme musicali così lontane nel tempo. Le fonti ci riportano una codificazione piuttosto schematica e certamente non esaustiva di una pratica sempre in evoluzione nel tempo e negli spazi. Solo valutando vari parametri storici, etnici, religiosi, scientifici e perché no, anche musicali potremmo tentare una nostra interpretazione del contenuto delle fonti a noi giunte e dell’iconografia. A mio parere chi si illude di recuperare il passato e non la musica del passato, commette un errore grossolano. Colui che si occupa onestamente del passato, prossimo o remoto che sia, non si colloca in simbiosi con esso, ma lo analizza, lo studia, lo giudica e, così facendo, in buona misura se ne allontana. Se si considera dunque una proposta esecutiva di musiche medioevali come una vera e propria “interpretazione” si deve ammettere che essa rappresenta un operazione decisamente moderna. La ricerca di un colore e di un paesaggio sonoro di quest’epoca è fortemente condizionata da passioni religiose di carattere monastico e popolare e inoltre, affascina oggi la nostra mente stimolando situazioni utili a ritrovare una dimensione pura, più acustica e meno tecnologica. Le problematiche esecutive della musica medioevale devono tener conto della situazione reale ed emozionale in cui l’evento si proietta; vi è un preciso connubio tra momento musicale e momento sociale sia esso sacro o profano. Nelle musiche dell’epoca è presente una forte componente di improvvisazione legata a fattori di caratterizzazione etnica che perdono una precisa identità interpretativa e spontanea quando vengono “ingabbiati” in formule di trascrizione e di codificazione. Sono in perfetta sintonia con chi afferma che queste testimonianze musicali non possono essere presentate in un semplice concerto, quanto meno provare a ricostruire l’aspetto storico ed emozionale generatore. Ne è un classico esempio l’esecuzione del Canto Gregoriano al di fuori della liturgia. Se vogliamo comunque affrontare problematiche di prassi esecutiva, occorre sottolineare l’importanza della simbiosi tra suono e parola. Questo rapporto ha radici profonde: risale all’antica Grecia e, fin dai tempi di Platone, non ha mai mancato di accendere il dibattito fra teorici e musici. Tale rapporto è divenuto l’elemento sostanziale del Canto Gregoriano, nesso imprescindibile per una sua autentica interpretazione. Con l’avvento della Polifonia a partire dal IX secolo, il legame non si spezzò, ma al contrario, si irrobustì ancor più, fino a toccare il culmine nel corso del sec. XVI. L’ars dicendi, ovvero l’arte del parlare, il potere incontrastato dell’eloquenza nel muovere gli affetti, che informa l’espressione musicale, contribuisce non poco ad accelerare quel processo di verbalizzazione della musica sacra e profana, che conoscerà il suo culmine nelle esperte mani di Monteverdi. Importanti sono le testimonianze su questo tema dei teorici Guido d’Arezzo e Johannes Cotto. Nel suoMicrologus Guido afferma che, come nella metrica ci sono lettere e sillabe, parti e piedi e versi, così nella musica ci sono suoni dei quali uno, due o tre si raggruppano in sillabe; e una o due di quest’ultime in un neuma, cioè costituiscono la parte di una cantilena; una o più parti, poi, formano una distinctione ovvero un luogo opportuno per respirare. Nella declamazione dei Salmi il rapporto suono-parola è ancora più eloquente; nella pratica liturgica si raccomanda di “pronunciare distintamente ogni singola parola rispettandone gli accenti ed evitando di sovrapporle o dividerle in due; di mantenere il medesimo criterio di articolazione del testo, affinchè non risulti più veloce l’inizio rispetto alla metà o alla fine del versetto”.
Dobbiamo ora mettere in evidenza l’affascinante figura della Madonna che, con il suo umile e semplice prestigio, ha notevolmente influenzato la pratica musicale nel Medioevo anche nelle sue contaminazioni tra sacro e profano. La purezza e la dolcezza di Maria condiziona la pratica vocale con la quale il suono cercato deve essere limpido e intimamente connesso alla parola, mediante gli accenti e le inflessioni ritmiche del linguaggio parlato e declamato.
L’ottica con cui si possono affrontare brani sacri del periodo medioevale, è contrassegnata dalla raffinatezza vocale che riflette la filosofia e la retorica del canto cristiano romano. E’ proprio nel Medioevo che la figura della Madonna acquista grande prestigio anche come mediatio e intercessione tra l’uomo e Dio, rifugio delle aspirazioni umane alla ricerca di un sollievo spirituale che allontani le nefandezze terrene. Ne è una tangibile testimonianza il fenomeno della Lauda dove è maggiormente in evidenza l’incontro tra sacro e profano e dove l’uomo comune cerca con un suo linguaggio ancora rozzo e poco raffinato, di appropriarsi dei misteri spirituali e di una dimensione religiosa più comprensibile. Ritornando all’interpretazione musicale dei testi, dobbiamo centrare la nostra attenzione alle forme retoriche presenti nei brani dell’epoca medievale come nel caso dell’incipit dell’Antifona gregoriana Alma redemptoris mater. E’ innegabile l’importanza di esecuzione di questo spunto melodico che prepara alla regalità e alla bellezza della figura mariana, la melodia parte dal basso e si staglia verso l’alto allo stesso tempo con forza e devozione. C’è un importante segno di paleografia gregoriana, il quilisma che accentua questo movimento melodico tra la seconda e quarta nota. E’ importante considerare come la vocalità deve essere rispettosa di questi segni che esprimono indicazioni esecutive dove non può essere eclatante la forza sonora ma l’intenzione del cuore. Perciò rispettare un fraseggio dedicato al significato profondo del testo con una precisa intimità sonora che cerchi di cogliere la vera essenza della figura mariana. La testimonianza del canto gregoriano condiziona anche la polifonia medioevale a cominciare dall’epoca carolingia stessa (ca 750 in poi). Il cantare a più voci rappresenta un’azione sul Canto Piano, ma non come fatto tecnico, semplicemente come amplificazione e ornamentazione dello stesso. Si cantava a più voci soprattutto nella pratica cristiana legata alla Chiesa di oriente. Questa ornamentazione polifonica veniva fatta nel rispetto della sacralità degli intervalli sinfonici di 4-5-8; l’introduzione in Europa del primo organo IDRAULOS potrebbe aver incoraggiato questa pratica. Lo studio interpretativo che viene portato avanti è basato fortemente su questa amplificazione polifonica del testo sacro; le voci sono continuamente alla ricerca dello sviluppo armonico naturale assecondando naturalmente la sovrapposizione acustica insita nel suono base generatore. Le fonti ci riportano una testimonianza di prassi esecutiva attraverso una codificazione piuttosto scarna e per nulla esaustiva sul rivestimento musicale del testo. E’ ormai assodato che insieme alle melodie tramandate nei codici, venissero usate forme di polifonia orale che scaturivano dalle varie tipologie di canto. Vi sono diverse tecniche di amplificazione orale, tenendo presente che cantare per 5 o per 4 o per 8 non è una vera polifonia in quanto questi suoni sono armonici del suono generatore, la prima vera polifonia è rappresentata dal Discanto, cioè far cantare una voce in contrapposizione melodica con la principale. Finchè l’amplificazione polifonica segue lo sviluppo e l’articolazione testuale non vi sono problematiche legate all’andamento ritmico. L’invenzione ritmica rappresenta invece la vera novità dell’Ars Nova dove, soprattutto presso la Schola di Notre Dame, c’è l’esigenza di creare delle strutture ritmiche che potevano gestire la proliferazione degli organa melismatici sopra il canto fermo.
L’arricchimento ritmico non deve comunque scombinare una certa purezza e trasparenza vocale che permette una corretta e comprensibile interpretazione del testo. Abbiamo precedentemente accennato al fenomeno popolare della Lauda come genuina trasparenza della religiosità comune; a ciò possiamo affiancare le melodie tratte dal famoso Livre Vermeil che raccoglie le testimonianze musicali del pellegrinaggio medioevale alla Madonna Nera del monastero di Montserrat. Andare in pellegrinaggio era allora come oggi un’esperienza di forte rinnovamento spirituale. Il Codice ci documenta sui miracoli della Vergine e sul pellegrinaggio presso il sacro sito. Era grande la sua fama pietosa e riconoscente che sempre un maggior numero di pellegrini salivano fino a Lei per lodarla e per chiederle perdono. Pare che l’esplosione delle emozioni accumulate dai pellegrini durante il viaggio fosse tale che, oltre a pregare la Vergine e a pentirsi fortemente, essi cantassero e danzassero. Come ci documenta questo codice, era data la possibilità ai fedeli di cantare e danzare con fervore popolare; ciò dimostra ancora come sia forte la contaminazione tra sacro e profano nel Medioevo. Anche nell’interpretazione di queste musiche va rispettato il significato testuale e, come già precedentemente detto, tener conto dell’aspetto emozionale dell’evento dovuto dal luogo dove veniva perpetuato.
A conclusione di questi spunti di riflessione sulla prassi esecutiva delle testimonianze musicali del Medioevo, possiamo ribadire lo spirito storico con cui avvicinarsi a questo repertorio, ma soprattutto la giusta coscienza nel calarsi a fondo negli stimoli sacri e profani che hanno generato questa cultura. Non è possibile interpretare qualche cosa che non fa parte della nostra spiritualità, lo studio di una corretta interpretazione delle fonti medioevali deve passare attraverso la Parola e al suo significato più ampio che condiziona tradizioni e usanze sia colte che popolari. La Parola e la Musica narrano esperienze e testimonianze che vanno ben oltre una pura e semplice accezione estetica.
Franco Radicchia