Componimento poetico spesso musicato e cantato. – Assai diffuse nei secoli XIII e XIV, le laude sono espressione della vivacità del sentimento religioso popolare lungo quei secoli, e sono legate ad alcuni particolari movimenti religiosi, come quello dei Battuti o Flagellati, e alle confraternite. – Hanno metricamente lo schema della ballata. – Se ne conservano numerose anonime; molte furono composte da poeti colti, il maggiore è Jacopone da Todi. – Già nel Duecento dalla lauda si sviluppò la lauda drammatica, nella quale sono introdotti due o più interlocutori dialoganti tra loro; tali laudi hanno grande importanza, in quanto costituiscono il primo germe del successivo teatro religioso o sacra rappresentazione.
In Umbria fiorì nel se. XIII la più schietta poesia italiana delle origini. Fiorì in pieno medioevo, quando il conflitto fra l’Impero e la Chiesa, che caratterizzò politicamente quell’epoca, si ramificò nelle discordie fratricide ed esplose entro le mura della stessa città, fra i sostenitori dell’uno e i seguaci dell’altra; nelle cruente contese che armarono i comuni ghibellini contro i comuni guelfi; negli odi selvaggi che si scatenarono tra feudatari e feudatari. La vita della città e dei castelli era più che mai travagliata da ingiustizie, soprusi, vendette. Oddi e Baglioni combattevano in Perugia, Orvieto era dilaniata dalle rivalità dei Monaldi e dei Filippeschi, e in Todi, ghibellina, i Chiaravalle infuriavano contro le famiglie guelfe degli Atti e dei Candidi. Le colline popolate di castelli conoscevano i profondi rancori dei feudatari. Ma proprio in questo tragico infuriare di passioni si levò sull’Umbria il canto della pace. Era scaturito dalla vita intesa come amore; era alimentato dalla fede che vince ogni contrasto e che unisce gli uomini in un vincolo di fratellanza universale; ma quel canto nel sentimento che abbraccia con purezza tutte le creature, estendeva la fratellanza in Dio al sole, e al foco, a sora nostra matre terra, alle stelle preziose clarite e belle, dall’uomo, ad ogni essere vivente ad ogni aspetto naturale, nulla si sottraeva allo sguardo innamorato di San Francesco, che esaltava Dio per tutte le creature. Quell’inno è il miracolo di un fiore sbocciato nel deserto. E’ la più limpida esaltazione della vita colta nella sua totalità, e, come tale, è avulso dal suo tempo; San Francesco aveva in sé la pace, ne fece dono a quanti ebbero in sorte di stargli vicino e la portò dove regnava la discordia,; ma di questa sua esperienza nulla rimane nel canto che gli sgorgò dal cuore; nessun sentimento ispirato alla particolare condizione politica del suo tempo vive nel Cantico delle Creature: non il desiderio di evadere dalla realtà, innalzando lo sguardo a Dio, non la pietà per gli uomini che può tradursi nell’accorato invito a ripudiare le feroci passioni terrene o nello sdegno per la cecità spirituale che spegne gli occhi alla gran luce di Dio. L’inno di San Francesco è una gaudiosa contemplazione dell’opera divina. E’ una lauda radiante di sole, luminosa di clarità di stelle, ricca del vario colore delle stagioni che, alternandosi, vestono di sempre nuove sembianze la terra, è una robusta adesione della volontà dell’uomo alla volontà divina. “Laudato si, mi Signore, per quilli che perdonano per lo tuo amore, e sostengono infirmitate e tribulatione. Beati quilli che sosterranno in pace, ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.” E’ pienezza di fede nel convincimento della beatitudine che attende, dopo l’abbraccio con “sora nostra morte corporale” “tutti quilli che se trovarà ne le .. sanctissime voluntati .. ” di Dio. Il Cantico delle Creature è vita che si fa parola di poesia.
L’espressione musicale della devozione popolare
(…) La canzone spirituale, ovvero la laude in lingua volgare, aveva accentuato tale slittamento determinando il sorgere di una nuova corrente popolare poetica che solo più tardi – in rapporto all’esigenza della trasmissione – assumerà la dignità della scrittura. I nuovi canti sorgevano spontanei con lo scopo di lodare Dio, venivano cantati nelle contrade, nelle piazze, lungo i camminamenti dei pellegrini, nelle processioni dei movimenti puperistici di cultura francescana, nelle adunanze dei predicatori e delle pie compagnie dei disciplinati e dei flagellanti.
Questo nuovo prodotto simboleggiava la diversa condizione della Ecclesia spiritualis di Giovanni che Gioacchino da Fiore indicava come nata nel 1260 in alternanza alla originaria Chiesa di Pietro.
Nella rinnovata Ecclesia si concentravano le aspirazioni del popolo di Dio e i nuovi predicatori adeguavano il loro linguaggio che sarebbe sfociato nel modello della conclamatio, fondato sull’uso della lingua volgare e sulla funzione espressiva del linguaggio lirico per il raggiungimento di una comunicazione ad ampio raggio. Quando Bonifacio VIII proclamò il primo anno di Giubileo, verosimilmente comprese le aspettative di un grande movimento spirituale di base: gli organismi di propaganda spirituale avevano preparato la ricezione a livello delle classi inferiori che ora reclamavano per sé l’indulgenza acquisibile con atteggiamento penitente, con la preghiera e con il canto.
Il repertorio doveva essere molto simile a quello tramandato dal notissimo Laudario di Cortona che ebbe per tempo una prima edizione moderna e successivi approfondimenti in ordine al linguaggio musicale e alle strutture poetiche. Vero monumento della poesia per musica spirituale italiana dei primi secoli della lingua, fu un esempio inconfutabile del rapporto strutturale con la lirica profana coeva, con la formazione dell’idioma e con la monodia di tradizione gregoriana. L’eccezionalità della fonte è soprattutto incentrata sul corredo musicale in chiara notazione neumatica quadrata a cui sono sottoposti i testi, in grado di tramandare le melodie originali, anche se con varie problematiche connesse alla natura ritmica delle melodie stesse, non meglio espressa in mancanza di indicazioni peculiarmente mensurali.
Non fu sempre così: difatti in seguito le laudi con intonazione originale furono definite “a modo proprio” per distinguerle da quelle che utilizzavano melodie preesistenti ricorrendo all’indicazione “cantasi come”. Il fenomeno è di ampia portata e stabilisce un rapporto significativo tra produzione poetica e produzione musicale: la prima risulta abbondantemente superiore alla seconda, segno evidente della necessità di adeguamento dei rimari alle varie aspirazioni spirituali dei laudesi. Del resto ancora dall’Umbria, sulla scia di san Francesco, frate Jacopone da Todi non solo aveva portato la laude a livelli di alta poesia spirituale divenendo un punto di riferimento per i laudografi fino a tutto il XV secolo e oltre, ma anche l’aveva condotta entro strutture formali definite che rendevano possibile il trasferimento delle melodie da un testo all’altro, purchè nel rispetto dello stesso schema ritmico.
La forma più utilizzata fu la ballata nelle varie forme tradizionalmente indicate come piccola, media e grande. Si comprende bene la scelta se si considera che la ballata rappresentò da sempre la forma popolare più perfetta della fusione di poesia, musica e ballo, e ciò non affatto in osservanza di pretese quanto improbabili annessioni alla cultura classica, bensì per discendenza da una cultura arcaica collegata alla tradizione popolare, al gusto della gestualità e della mimica, alle abitudini della ricezione formatasi sull’uso del ritornello come gioco di alternanza, come effetto di domanda e risposta, come condizione emotiva fondata sulle funzioni dell’antecedente e del conseguente, come riscatto della memoria musicale favorita dalla ripetizione.
La ballata infatti risponde allo schema A-B-A, davvero duro a morire fino ai nostri giorni!
Tratto da: “L’espressione musicale della devozione popolare” di Francesco Luisi
pagg. 155/156, da A.A.V.V., Enciclopedia della Musica, Ed. Einaudi