Il nome di “lauda“, nella forma umbra più specifica imposta da Ernesto Monaci (1872), è tecnicamente applicato a una ballata d’argomento sacro, dove le “stanze” sono affidate a un solista e il ritornello o ripresa al coro, con una rima comune invariante. Iniziativa duecentesca di controversa e forse segmentata paternità, d’area umbro-toscana, la lauda è collegata all’attività di Compagnie di Disciplinati o di Battuti, quindi posteriore al moto perugino dei Flagellanti iniziato daRaniero Fasano* nel 1260.
A tale data, un pò lontana da quella dei primi Laudari confraternali e dalle grandi “antologie” umbre (dei Laudari umbri il più antico è quello di Assisi studiato da Baldelli), l’uso di cantare laude era già diffuso, sia pure in altre forme, destinate più o meno lentamente a sparire dietro il successo della lauda-ballata, regina nel Tre e Quattrocento.
*Il movimento di Disciplinati ebbe origine a Perugia nell’anno 1260, su iniziativa del laico Rainero Fasani che, secondo la leggenda, dopo aver praticato per 18 anni la disciplina in privato, ricevette dalla Vergine l’ordine di praticarla pubblicamente e di diffonderne la pratica…”. Una Congregazione dei Disciplini esisteva a Bergamo già dal 1317 e sotto la guida del Beato Venturino de Apibus (nato a Bergamo nel 1304 e vissuto nel convento domenicano di Bologna) conobbe uno straordinario successo spirituale che diede una forma istituzionale al movimento. I Disciplini erano congregazioni a carattere popolare che avevano a base della costituzione stessa delle società la preoccupazione per la salvezza dell’anima, angustia che giustificava l’adozione della dura pratica penitenziale dell’autoflagellazione : per questo motivo venivano chiamati i “battuti”. Praticavano la penitenza corporale che si accompagna alla flagellazione, ciascun membro si frustava per imprimere sul proprio corpo i segni fisici della sofferenza di Cristo sulla Croce e si battevano con il cilicio (un mazzo di funicelle intrecciate intercalate da nodi) sopra la schiena a pelle scoperta.
Donna de Paradiso
di Jacopone da Todi
“Donna de Paradiso,
lo tuo figliolo è preso
Iesù Cristo beato.
Accurre, donna e vide
5che la gente l’allide;
credo che lo s’osside,
tanto l’ò flagellato”.
“Como essere porria,
che non fece follia,
10 Cristo, la spene mia,
om l’avesse pigliato?”.
“Madonna, ello è traduto,
Iuda sì ll’à venduto;
trenta denar’ n’à auto,
15 fatto n’à gra mercato”.
“Soccurri, Madalena,
ionta m’è adosso piena!
Cristo figlio se mena,
como è annunziato”.
20 “Soccurre, donna, adiuta,
cà ‘l tuo figlio se sputa
e la gente lo muta;
òlo dato a Pilato”.
“O Pilato, non fare
25 el figlio meo tormentare,
ch’eo te pòzzo mustrare
como a ttorto è accusato”.
“Crucifige, crucifige!
Omo che se fa rege,
30 secondo nostra lege
contradice al senato”.
“Prego che mm’entennate,
nel meo dolor pensate!
Forse mo vo mutate
35 de que avete pensato”.
“Traiàn for li latruni,
che sian soi compagnuni;
de spine s’encoroni,
ché rege ss’è clamato!”.
40 “O figlio, figlio, figlio,
figlio, amoroso giglio!
Figlio, chi dà consiglio
al cor me’ angustiato?
Figlio occhi iocundi,
45 figlio, co’ non respundi?
Figlio, perché t’ascundi
al petto o’ sì lattato?”.
“Madonna, ecco la croce,
che la gente l’aduce,
50 ove la vera luce
déi essere levato”.
“O croce, e que farai?
El figlio meo torrai?
E que ci aponerai,
55 che no n’à en sé peccato?”.
“Soccurri, plena de doglia,
cà ‘l tuo figliol se spoglia;
la gente par che voglia
che sia martirizzato”.
60 “Se i tollit’el vestire,
lassatelme vedere,
com’en crudel firire
tutto l’ò ensanguenato”.
“Donna, la man li è presa,
65 ennella croc’è stesa;
con un bollon l’ò fesa,
tanto lo ‘n cci ò ficcato.
L’altra mano se prende,
ennella croce se stende
70 e lo dolor s’accende,
ch’è plu multiplicato.
Donna, li pè se prènno
e clavellanse al lenno;
onne iontur’aprenno,
75 tutto l’ò sdenodato”.
“Et eo comenzo el corrotto;
figlio, lo meo deporto,
figlio, chi me tt’à morto,
figlio meo dilicato?
80 Meglio aviriano fatto
Ch’el cor m’avesser tratto,
ch’ennella croce è tratto,
stace desciliato!”.
“O mamma, o’ n’èi venuta?
85 Mortal me dà feruta,
cà ‘l tuo plagner me stuta,
ché ‘l veio sì afferato”.
“Figlio, ch’eo m’aio anvito,
figlio, pat’e mmarito!
90 Figlio, chi tt’à firito?
Figlio, chi tt’à spogliato?”.
“Mamma, perché te lagni?
Voglio che tu remagni,
che serve mei compagni,
95 ch’èl mondo aio acquistato”.
“Figlio, questo non dire!
Voglio teco morire,
non me voglio partire
fin che mo ‘n m’esc’ el fiato.
100 C’una aiàn sepultura,
figlio de mamma scura
trovarse en afrantura
mat’e figlio affocato!”.
“Mamma col core afflitto,
105 entro ‘n le man’ te metto
de Ioanni, meo eletto;
sia to figlio appellato.
Ioanni, èsto mea mate;
tollila en caritate,
110 àginne pietate,
cà ‘l core sì à furato”.
“Figlio, l’alma t’è ‘scita,
figlio de la smarrita,
figlio de la sparita,
115 figlio attossecato!
Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio,
figlio, e a ccui m’apiglio?
Figlio, pur m’ai lassato!
120 Figlio bianco e biondo,
figlio volto iocondo,
figlio, perché t’à el mondo,
figlio, cusì sprezzato?
Figlio dolc’e placente,
125 figlio de la dolente,
figlio àte la gente
mala mente trattato.
Ioanni, figlio novello,
morto s’è ‘l tuo fratello.
130 Ora sento ‘l coltello
Che fo profitizzato.
Che moga figlio e mate
D’una morte afferrate,
trovarse abraccecate
135 mat’e figlio impiccato!”.