«Una delle ragioni per cui Francesco d’Assisi continua ad interessare così tanto la nostra epoca è legata probabilmente al fatto che viviamo in società per certi aspetti simili alla sua. Egli visse in un’epoca di forte crescita del divario fra ricchi e poveri. Un’epoca, come la nostra, di nuovi poveri».
Parlare con il grande medievista francese André Vauchez, classe 1938, non significa solo risalire il fiume dei secoli, ma pure comprendere meglio il nostro. L’ex direttore dell’Ecole française a Roma (1995-2003), membro dell’Accademia dei Lincei e appassionato dell’Italia, dove ha trascorso quasi vent’anni, è adesso insignito del prestigioso Premio Balzan, che riceverà a Berna venerdì 15 novembre, insieme con gli altri premiati, Manuel Castells per la sociologia, Alain Aspects per l’informazione e la comunicazione quantistica, Pascale Cossart per la ricerca sulle malattie infettive. Nel suo appartamento parigino, rievoca alcuni temi cari, come la santità medievale, le grandi mistiche, il profetismo cristiano, il poverello di Assisi. «Non è un caso», dice sull’arrivo del nome Francesco al soglio di Pietro.
Professor Vauchez, lavorare in Francia sulla storia religiosa le ha valso incomprensioni, almeno all’inizio?
«Ho avuto alla Sorbona un eccellente maestro, Michel Mollat, che era pure un grande cristiano e dunque tutt’altro che ostile alla storia religiosa. Ma è vero che negli anni Sessanta e Settanta, quando cominciai a specializzarmi, non era facile fare della storia religiosa all’università, per via di una tradizione laica forte. La storia religiosa era rimasta indietro rispetto alla svolta storiografica degli Annales. Era un po’ una cenerentola, insegnata molto poco. Assieme ad altri, è stato necessario battersi per la legittimità della specialità. Se fin dagli anni Sessanta ho apprezzato così tanto lavorare in Italia, è anche perché la situazione era diversa. La storia religiosa era più valorizzata, con tanti studiosi rinomati».
La sua prima sintesi sulla spiritualità del Medioevo occidentale si chiudeva, umilmente, con un’«ammissione d’ignoranza» circa la religiosità popolare. Da allora, si sono fatti passi avanti?
«Oggi, non scriverei più la stessa conclusione. Dal 1974, le cose sono molto cambiate. Conosciamo meglio la religiosità popolare, i pellegrinaggi, le confraternite, così come il legame fra la religione vissuta e quella prescritta. Soprattutto a partire dal Duecento, vi è stato uno sforzo della Chiesa per inquadrare di più i fedeli a livello istituzionale e pastorale. Ma accanto a delle prescrizioni più precise, sopravvivevano pratiche molto più autonome, come i pellegrinaggi o le confraternite, create quasi sempre da laici».
Lei si è molto interessato alla religiosità femminile. Ancor oggi, l’audacia di Caterina da Siena o di Giovanna d’Arco ci stupisce. Che spiegazioni può dare uno storico?
«Dal Duecento al Quattrocento, si afferma e sviluppa il ruolo della donna nella vita religiosa, fino ad allora rimasto abbastanza minore. Quest’affermazione non avviene a scapito dell’uomo, ma rivendicando una specificità femminile che si esprime su un altro registro. Poche di queste donne sapevano leggere. Quasi nessuna scriveva. Ma questo deficit culturale è stato compensato sviluppando l’esperienza intima di Dio e la mistica. Penso a Chiara d’Assisi, Chiara da Montefalco, Angela da Foligno, fino a Caterina da Siena. Sono state in gran parte le donne a scoprire e promuovere la mistica, accanto alla dimensione profetica. In un periodo di grandi disordini politici e di crisi del potere maschile, le donne si sono espresse per il bene della Chiesa e della società. In proposito, il caso di Giovanna d’Arco è emblematico».
Si trattò di personalità capaci pure di un ruolo politico decisivo…
«Colpisce la loro ricerca del sostegno dei poteri per compiere il proprio messaggio. Caterina da Siena, ad esempio, scrive al re di Francia per difendere il Papa a Roma rispetto a quello avignonese. Non si può parlare d’ingenuità, dato che queste donne comprendono che la soluzione dei problemi resta politica. Occorre far pressione sulla politica per difendere gli interessi spirituali. Tali figure sono mistiche nella relazione con Dio e con Cristo, ma molto realiste nella condotta».
Lei ha curato una biografia di san Francesco. Come spiega l’eccezionale trasmissione del francescanesimo?
«Francesco d’Assisi non è una figura isolata del suo tempo, ma appare in una fase in cui molti laici si convertono a una vita migliore, servendo poveri e lebbrosi, fondando ospedali o curando le donne sole. C’è un contesto più largo, non solo in Italia, di laici al servizio dei miserabili. Ma evidentemente, la sua personalità è straordinaria. E con lui, l’aspirazione dei laici a condurre una vita pienamente cristiana trova compimento attraverso la predicazione itinerante, che non è teologica o dottrinale, ma è un appello alla conversione rivolto a tutti, uomini e donne, compresi i musulmani. Naturalmente, questo carisma conserva una parte di mistero».
Per lei, il francescanesimo è «il solo movimento religioso cristiano per il quale si possa parlare di una capitale, Assisi, e di un centro, l’Umbria». Quanto ha contato?
«È stato molto importante. L’ordine domenicano, per fare un paragone, non ha un simile radicamento o centro geografico. Ancor oggi, si può dunque ben parlare dello “spirito di Assisi”, rilanciato da Giovanni Paolo II con l’incontro storico del 1986. La Porziuncola, in particolare, resta un riferimento assoluto per l’ordine».
In che senso, com’è stato scritto, san Francesco fu un condensato del Medioevo?
«Francesco d’Assisi è rappresentativo di una nuova società urbana, in un mondo in espansione economica grazie agli scambi anche marittimi. Ma al contempo, è una figura capace di aprire prospettive nuove, ad esempio con la sua sensibilità per l’Oriente e l’evangelizzazione verso l’islam. Oggi, accanto alla povertà, stiamo riscoprendo meglio l’altra dimensione centrale del santo, l’umiltà, ovvero il rifiuto del potere, salvo quando è un servizio».
Daniele Zappalà
da AVVENIRE del 13 novembre 2013