Convegni. A un anno dalla sua scomparsa, un simposio a Roma sul grande storico Jacques Le Goff e i suoi rapporti con l’Italia
A un anno dalla scomparsa del grande medioevista Jacques Le Goff si torna a parlare della sua figura in un imminente, importante convegno italo-francese intitolato a Jacques Le Goff e l’Italia (École Française de Rome – Les Annales — Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma, 4–5 giugno 2015).
Solo oggi la relazione implicata dal titolo dell’incontro può essere tutta compresa nel segno positivo dell’accoglienza, e del conseguente grande influsso esercitato dall’opera di Le Goff sulla medievistica del nostro paese; per contro, tra gli anni Sessanta e i primi anni Ottanta il «metodo» Le Goff suscitò in Italia prevedibili resistenze.
Insieme al suo maestro Fernand Braudel e all’esperienza complessiva nata attorno alla rivista Les Annales, Le Goff aveva raccontato una storia dominata dall’infintamente grande – cioè da fenomeni di lunga durata, che scardinano le cesure solo apparentemente risolutive degli avvenimenti – e dall’infinitamente umano — singoli individui comuni in carne ed ossa, il cui vissuto, quando è recuperabile, lascia traccia in fonti non ufficiali – ben lontana dal protagonismo delle istituzioni e dalle date-limite che fungono da strumento periodizzante. In questa storia, la cultura è intesa non come idealistico e disincarnato Geist di un’epoca, ma come affabulazione, trasfigurazione in forma di mito, racconto e ideologia di paure, sogni, speranze prodotta dall’incontro-scontro tra individuo e collettività, tra classi subalterne e classi dominanti.
In questo quadro si colloca il libro notissimo intitolato alla Nascita del Purgatorio (1981), in cui l’affermazione, nell’immaginario medioevale, di uno stato intermedio e non definitivo del sistema penale ultraterreno corrisponde all’apertura di uno spazio di transazione tutto terreno tra la Chiesa e la borghesia – il sistema delle indulgenze e dei suffragi — strumento di affermazione della forza economica e sociale di quest’ultima.
L’età di mezzo realista
Le resistenze incontrate dalla storia di Le Goff in Italia nascono anzitutto dal modo in cui il grande storico seppe leggere fattori cardine dell’antropologia cristiana medioevale, cioè il concetto di umiltà e quello di incarnazione, che erano già stati significativamente riletti da Eric Auerbach. Secondo Auerbach, umiltà e incarnazione sono la base emotiva e ideologica del realismo medioevale in letteratura; Le Goff continua la lezione di Auerbach restituendo all’uomo medioevale la sua dimensione realistica e creaturale, ben al di là di quella storia di istituzioni – papato, impero, cancellerie, ecc. – così saldamente radicata nella nostra tradizione italiana.
Il «realismo» di Le Goff rientra culturalmente a pieno titolo tra le reazioni all’idealismo storico e filosofico che animarono la cultura europea del dopoguerra.
Per ricostruire questa reazione in Italia, bisogna partire dalla seguente questione posta da Antonio Gramsci: «il problema di cosa è l’uomo è dunque sempre il cosiddetto detto problema della ’natura umana’, o anche quello del così detto ’uomo in generale’, cioè la ricerca di creare una scienza dell’uomo (una filosofia) che parte da un concetto inizialmente ’unitario’, da un’astrazione in cui possa contenere tutto l’’umano’. Ma l’’umano’ è un punto di partenza o un punto di arrivo, come concetto e fatto unitario? o non è piuttosto, questa ricerca, un residuo ’teologico’ e ’metafisico’ in quanto posto come punto di partenza?».
Ritrovare l’uomo concreto nelle scienze umane è il grande compito che la storia di estrazione hegeliana – compresa quella marxista – aveva lasciato inevaso e che i massacri della Seconda Guerra Mondiale, irriducibili a fattori puramente fattuali e a istanze puramente razionali, riportavano in primo piano.
Capire, come fece Gramsci, che l’uomo in generale è un residuo metafisico, è servito a ripartire dal singolo individuo concreto, con la sua povera realtà di debolezza, di bisogno e di dolore, e a indagare le forme in cui si svolge la mediazione tra il singolo e la storia. In Italia ha avuto questa funzione l’antropologia di Ernesto de Martino – il cui valore filosofico fu non a caso negato da Benedetto Croce — dove il mito religioso si dà come mediazione tra esistenza e storia, tra psiche e societa.
Tanto in De Martino quanto in Le Goff, tuttavia, il mito è un livello di espressione della storia da indagare, ma a cui non si deve soggiacere. In interviste rilasciate a quotidiani italiani (oggi ripubblicate nel bel volume Jacques Le Goff e l’Italia, a cura di Romagnoli, Feniello, Sansone, in corso di stampa presso l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo di Roma) Le Goff dichiarava: «Non nascondo nulla a bambini e ragazzi: dalle persecuzioni degli eretici alle Crociate, ai genocidi, al colonialismo, alla Shoah e alla barbarie nell’ex Jugoslavia. Nonostante tanto orrore, l’Europa dev’essere fatta».
Barbari e assimilati
Secondo lo studioso, lo «svelamento del mito» della storia consisteva nella comprensione dei rischi di esclusione economica, sociale e culturale che un’Europa dei potenti avrebbe comportato, sia sul suo territorio che nel mondo, inscritti nei meccanismi di lunga durata inaugurati dalla globalizzazione romana: «al termine di un periodo abbastanza lungo – parecchi secoli – la mondializzazione romana s’è rivelata incapace d’integrare o d’assimilare nuovi cittadini, quelli che aveva chiamato «barbari» e che, non potendo essere integrati nello spazio e nel sistema romani, si ribellarono. (…) In generale, la mondializzazione induce a ribellarsi, più o meno a lungo termine, coloro che da essa non traggono più beneficio, ma anzi vengono sfruttati e addirittura espulsi».
Solo facendo nostra l’idea di una storia fatta di racconti, di individui, di emozioni e di rapporti di forza riusciremo a leggere i miti attuali, terribilmente minacciosi, che le dinamiche di esclusione, le paure e il silenzio imposto ai più deboli oggi ci stanno raccontando.
Sonia Gentili, Il Manifesto, 3 giugno 2015