Più volte, in questa rubrica, ho affrontato il tema delle politiche monetarie espansivemesse in campo dalle Banche centrali e ho cercato di illustrare anche le ragioni dei loro avversari, in Europa e altrove. Due settimane fa, in particolare, parlando dell’ipotesi dell’elicottero monetario, ho accennato alle opposizioni fortissime di larga parte dell’establi
shment tedesco di fronte a questo scenario e ho ricordato come già il filosofo francese Montesquieu, vissuto tra il 1689 e il 1755, avesse messo in guardia dalla idea troppo semplicistica per cui i debiti potessero essere cancellati e la ricchezza creata stampando moneta all’infinito.
Un ascoltatore mi ha segnalato come ancor prima che i concetti di Stato e sovranità diventassero solidi in Europa, la moneta avesse iniziato a essere considerata da alcuni pensatori per la sua natura fortemente istituzionale e politica. Nelle citazioni che seguono mi rifaccio agli studi di un autore italiano, Paolo Evangelisti, ricercatore e oggi all’Archivio storico della Camera dei deputati. In particolare a due scritti: il primo, del 2013, intitolato “Francesc Eiximenis. Il Dodicesimo Libro del Cristiano”, per le Edizioni Università di Trieste; l’altro è “La bilancia della sovranità. Moneta, potere e cittadinanza in Europa (secc. XIV-XVIII)”, per ora pubblicato in spagnolo da Ausa e presto – si spera – in italiano. Siamo distanti alcuni secoli dalle polemiche contemporanee sui rischi delle politiche monetarie espansive, ma già allora il perseguimento di quella che oggi chiameremmo “stabilità monetaria” era dovuto alla convinzione che la moneta, come scrive Evangelisti, fosse “il simbolo e l’oggetto che racchiude in sé il valore cardine della vita associata, della comunità politica: la fiducia”.
Evangelisti, nel suo libro in spagnolo, passa in rassegna pensatori poco noti al grande pubblico, come Ramon Llull (1232-1316) e Arnau da Villanova (1240-1312), rivelando che un’ampia riflessione sulla moneta non era estranea al mondo francescano di allora presente tra Spagna e Italia. Se prima la moneta era considerata “Ornamentum regis” e oggetto evocativo del potere e della memoria del monarca, “in Arnau l’accento sul bene moneta è diverso. Esso cade tutto sul suo valore comunitario e sulla funzione prettamente ministeriale del governante che la conia. Il Magister afferma infatti che ‘il principe che adultera il titolo della moneta per far crescere i propri patrimoni personali commette un furto e conia quella moneta con l’inganno poiché in modo occulto depaupera i suoi e li spoglia dei beni preziosi. Non si è mai dato, infatti, che la pubblica utilità venisse perseguita adulterando il titolo della moneta né che [seguendo questo metodo] qualcuno potesse arricchirsi’“. Sono autori che scrivono in lingua volgare, non solo in latino, e con una forte proiezione pubblica. Vale anche per il più noto Nicola Oresme (1323-1382), tra i più importanti consiglieri della corte reale di Francia, con il suo “De Moneta” e la successiva traduzione-commento in volgare dell’Etica Nicomachea di Aristotele, il quale sottolinea la “proprietà individuale” sulla moneta. “Dio infatti – scrive Oresme – non concesse in origina la libertà e il dominio delle cose ai soli principi, ma ai primi genitori e a tutta la loro progenie, come si afferma nella Genesi. (…) Per questa ragione la moneta appartiene quindi alla comunità e a ciascun individuo”. Oresme, muovendo da queste premesse scritturistiche e argomentando il diritto di proprietà sul denaro come diritto che appartiene non al governante, ma esclusivamente a chi lo possiede e lo utilizza in quanto membro della res publica, stabilisce i parametri invalicabili che separano il principe giusto dal tiranno. “Tiranno, per Oresme, – scrive Evangelisti – è colui che non rispetta il diritto sulla moneta, e in primo luogo tiranno è chi altera la moneta senza il consenso della comunità. Con questo atto il princeps non solo amplia illegalmente le sue ricchezze ma compie un atto di eccesso di dominio sui suoi sudditi ai quali va riconosciuto un largo spettro di libertà che egli deve rispettare”.
Ma la figura più sorprendente è quella del frate francescano catalano Francesc Eiximenis, che opera nei territori della Corona aragonese tra ultimo quarto del XIV secolo e primo decennio del XV secolo. Scrive tra le altre cose, su commissione dei re aragonesi, “Il Dodicesimo libro del cristiano”, un volume sul governo della cosa pubblica, ritenuto così importante da venire incatenato al tavolo della sala principale dell’istituzione valenciana dove si riunivano le massime magistrature per adottare le loro deliberazioni di governo. 19 capitoli di questo libro dedicati alla moneta. In cui si legge tra l’altro: “E’ per questa ragione, dice Aristotele nel quinto libro dell’Etica, che il denaro in latino definito numus significa regola e misura stabilite dalla legge, che fissa il tenore del metallo della moneta per dare a chi la riceve il suo diritto. Per questo si dice che la moneta deve essere chiamata certezza, certezza di chi la dà perché attraverso di essa si conferisce a chi la riceve ciò che egli si aspetta e domanda. Per tale ragione chi falsifica la moneta deve essere gravemente punito dalla comunità, nella stessa misura in cui si puniscono coloro che tradiscono la fiducia degli uomini affidabili e veritieri quando, ingannando coloro che si fidano l’uno dell’altro, distruggono gli scambi giusti e retti fatti tra gli uomini. E il principe che conia la moneta alterandola va considerato un grande mentitore e traditore in quanto corruttore della giusta misura e del tenore stabiliti e istituiti per la moneta. Perciò alterarla è definito crimine di lesa maestà”. Ecco un monito che, forse non sempre in maniera giustificata, ma comprensibilmente continua a riecheggiare nei nostri dibattiti contemporanei attorno alla moneta e alla politica monetaria.
di Marco Valerio Lo Prete | da : Il Foglio; 16 Maggio 2016