«Angeli, diavoli, uomini». Cominciò così, secondo un cronista del tempo, una predica di Francesco d’Assisi in una città dell’Italia centrale, nel secondo decennio del Duecento. Un’altra volta, il santo si rivolse alle rondini che garrendo coprivano la sua voce e ordinò loro di tacere, benedicendole poi con un segno di croce. Non erano, allora, atteggiamenti di un religioso che pronunziasse dotte omelie e severi sermoni.
Qualcuno osservò che egli usava rivolgersi ai fedeli che venivano ad ascoltarlo secondo i cànoni non già della predicazione religiosa bensì secondo quelli dell’oratoria politica, che conosciamo bene anche grazie ai trattati di retorica politica che ci sono stati tramandati da autori come Boncompagno da Signa. Anzi, Francesco doveva quasi sembrare un concionator, un retorico e irruente demagogo. Ma l’arte di parlare il pubblico, la pratica di esprimersi in modo non solo convincente ma addirittura trascinante, veniva da lontano e faceva parte di quella che fin dall’antichità era la ‘vita democratica': cioè basata sull’arte di convincere e sulla necessità del consenso.
Non all’oratoria politica, che forse ne costituisce l’aspetto più avvincente e pittoresco, bensì in generale al rapporto tra politica, società, pratica del discutere e arte del convincere ha dedicato questo sostanzioso saggio Lorenzo Tanzini (A consiglio. La vita politica nell’Italia dei Comuni,Laterza. Pagine 238. Euro 22,00) esaminando come, tra XII e XIV secolo, i cittadini del centro e del nord della Penisola e anche quelli della vicina costa provenzale, sperimentassero una vivacissima attività politica che si esprimeva soprattutto attraverso un regime assembleare che, progressivamente, assunse caratteristiche di una vita ‘consiliare’ sempre più regolata e ristretta.
Abbiamo un po’ troppo idealizzato la ‘democrazia comunale’, concependola in termini di quasi idillica, arcaica perfezione: in realtà si trattò di una vita caratterizzata sì da discussioni, ma anche da scontri durissimi. Una ‘democrazia’ nella quale ordinariamente le opposizioni si vedevano cacciate in esilio, condannate alla pena capitale nonché alla confisca degli averi e alla distruzione delle dimore cittadine. Del resto, abbiamo non meno idealizzato la ‘democrazia’ degli antichi elleni, ch’era libero e ordinato svolgersi della vita di élites che gestivano una società schiavistica.D’altronde, anche la ‘democrazia’ comunale passò attraverso fasi distinte che, con molte variabili da città a città, la condussero a una dinamica di profonda trasformazione. Sembra cominciasse da Pisa nel corso dell’ultimo ventennio dell’XI secolo, e che da lì si espandesse per la Toscana, la Liguria, il Piemonte, la ‘Lombardia’ (cioè in genere l’Italia padana), l’Umbria e il Lazio, quel movimento che dette origine alla società consola
re che esprimeva un equilibrio fra aristocrazie e ceti subalterni poi meglio articolatisi fra loro fino a dar adito a più complesse istituzioni, le podestarili e poi ancora al fenomeno delle signorie, che non soppressero i consigli, ma li disciplinarono rendendoli più funzionali alla loro volontà.Fu tutt’altro che un percorso tranquillo e lineare. Ma fu culturalmente molto ricco con lo sviluppo delle università, l’affinarsi delle tecniche e il precisarsi delle teorie retoriche, lo sviluppo di una specifica trattatistica, insomma la nascita, al di là delle arti retoriche, di una vera e propria sia pur embrionale politologia. E le stesse arti, dall’architettura alla pittura alla scultura, accompagnarono mirabilmente questa dialettica: come si vede per esempio negli affreschi senesi di Ambrogio Lorenzetti.
Lorenzo Tanzini, uscito dalla feconda scuola medievistica fiorentina e attualmente ricercatore nell’università di Cagliari, dimostra di aver messo molto bene a frutto la lezione specialistica di valorosi studiosi: da Jean-Claude Maire-Vigueur, cui lo studio è dedicato, a Mario Ascheri, a Enrico Artifoni, a Gian Maria Varanini, a Massimo Vallerani. Un eccellente libro di storia medievale che non rifugge il confronto col presente: e, senza pericolose attualizzazioni, si comprende come esso sia stato ispirato anche ai mutamenti (se non alle ‘mutazioni’) che in questi anni sta subendo la stessa democrazia contemporanea. La citazione della crisi islandese del 2008-2012, in apertura alla Premessa, può apparire inquietante ma non è affatto inopportuna. Si conferma una volta di più, in questo libro, che la storia è sempre e comunque anche storia contemporanea.
Franco Cardini
da “Avvenire” del 6 giugno 2014