Sembra che uno dei documenti in volgare più antichi d’Italia sia stato compilato nell’abbazia di Sant’Eutizio, presso Norcia (oggi nella biblioteca vallicilliana di Roma): scritto da un anonimo monaco, la datazione di questo codice dovrebbe risalire intorno alla prima metà dell’XI secolo. Se la maggior parte dei documenti precedenti era composta di poche frasi, il testo di Sant’ Eutizio è l’unico nel suo genere che conti circa cinquecento parole. Il contenuto del codice in questione è prettamente religioso e riguarda in massima parte i formulari ritualistici per la confessione e per l’assoluzione. E’ di un certo interesse anche perché contiene una “sancta treva“, cioè la tregua di Dio, una di quelle prime forme d’intervento del potere spirituale nella vita politica e sociale della nascente civiltà comunale. Con questo mezzo, l’apparato religioso tentava, tramite l’imposizione della volontà divina, di far cessare, almeno durante i periodi festivi più importanti, le contese e le stragi civili che insanguinavano l’Italia di quel tempo. Dal punto di vista filologico, la grande importanza del documento di Sant’Eutizio consiste nellapossibilità di isolarvi facilmente duecento voci dell’antico vocabolario volgare umbro ma, allo stesso tempo, di uscire dalle limitazioni del dialetto locale ed evitare le inflessioni più strettamente regionali per acquisire un codice linguistico di più ampia comprensione. Un altro aspetto che influenzò gran parte della produzione poetica fu il profondo fervore mistico che per tutto il XIII secolo investì l’Umbria e che si esplicò anche mediante composizioni. Un esempio di questa forte devozione è costituita dal movimento capeggiato dall’eremita Raniero Fasani: nel 1260, il paese era terrorizzato da oscure profezie sulla prossima fine del mondo e questo personaggio, per mitigare l’ira di Dio, diffuse tra i fedeli la pratica della disciplina spirituale e della flagellazione. Gli storici narrano che perfino le donne, in casa, seguissero i dettami dell’eremita. Durante le loro processioni, come sollievo alla fatica e al dolore della fustigazione, i flagellanti intonavano dei canti. Questi canti, rozzi e improvvisati, detti cantio poenitentium lugubris, dovevano certamente ricalcare quelli più antichi che già cantavano gli appartenenti all’ordine dei Serviti, nato nel 1233, e forse anche gli accoliti dell’ordine dei Laudesi di Maria Vergine, di molto anteriore. Dopo il 1260, i Flagellanti abbandonarono quasi definitivamente la pratica della flagellazione e si unirono in confraternite con propri statuti atti a regolamentare la pratica religiosa e tutto ciò che concerneva la loro attività. Ma l’interprete più originale delle tensioni spirituali e delle ansie di rinnovamento che contrassegnarono tutto il XIII secolo, fu certamente Francesco d’Assisi. Iniziato il suo apostolato nel 1204, con alcuni discepoli cominciò a percorrere tutta l’Umbria e a predicare la sua nuova concezione della fratellanza e dell’amore cristiano. Dal punto di vista letterario, San Francesco consolidò la propria visione del mondo soprattutto con gli scritti in latino: la Prima Regola, la Seconda Regola, il Testamento e le ventotto Admonitiones, indirizzate quest’ultime ai fratelli dell’Ordine. Tuttavia, l’opera con cui il santo compì un’operazione innovatrice, per non dire rivoluzionaria, e che si presenta ai nostri occhi come la più importante della produzione francescana, è il Cantico delle Creature o Cantico di Frate Sole: redatto in volgare umbro del XIII secolo – ed è questo il primo carattere innovativo – con influssi toscani e latini, rimane uno dei testi poetici più antichi della nostra letteratura. Come genere letterario, il Cantico rientra in quello delle primitive laude che si cantavano durante le funzioni canoniche; da queste riprende anche la struttura. L’operazione di San Francesco è però più incisiva e spiritualmente elevata – ed è questo un secondo carattere innovativo – perché lodando Dio e tutte le sue creature terrene, instaura con l’Assoluto una nuova familiarità; persino la morte, non più nemica, si redime nel cuore dell’uomo come cosa divina. Profonda opera spirituale quindi, ma anche sottile azione culturale. Con il Cantico delle Creature, Francesco si pone come l’autore più influente della produzione duecentesca di poesia religiosa. La lauda, ripresa e arricchita dai Flagellanti, riprendeva lo schema dialogico, lo stile ed il metro aedico della ballata profana, componimento strofico destinato al canto e alla danza: raccolte in volumi, le laude si diffusero fra i componenti delle confraternite che le consultavano durante ogni festa e processione. Ulteriore evoluzione si ha quando da lirica e narrativa, la lauda si trasforma in “drammatica” in seguito al suo strutturarsi in forma di dialogo, diventando il componimento iniziale del teatro religioso umbro in volgare. Ecco come, dall’apparato scenico recato dalla sontuosità della chiesa nei drammi sacri interamente clericali, si passa al dramma realizzato dei laici all’esterno della chiesa stessa, cioè nelle piazze. Questo passaggio e le conseguente partecipazione popolare portarono con loro dei problemi di ordine linguistico. Il dramma sacro in volgare ebbe però presa immediata e, abbandonato il latino, l’apporto dei laici al dramma sacro si ampliò, anche in conseguenza della richiesta pressante da parte di ogni paese umbro che esigeva un proprio laudario da mettere in scena durante i festeggiamenti del santo patrono. Il compiuto sviluppo storico-formale della lauda è dovuto in gran parte a Jacopo de’ Benedetti (1230-1306), detto anche Jacopone da Todi. Nel 1268, dopo un profondo travaglio interiore, iniziò dieci anni di continua penitenza, toccando estremi livelli di ascetismo. Spinto da tale fervore mistico maltrattò e umiliò il proprio corpo, allo scopo di scoprire per intero la miseria umana e diventare, così, degno del perdono di Dio. L’opera cospicua di Jacopone, quasi cento laude, non ha né un ordine né un’impostazione di tipo cronologico; si è quindi consolidata la pratica di catalogare le laude per argomenti, suddividendole in tre grandi gruppi tematici: le opere didascaliche sulla vita ascetica, le opere sulla concezione mistica dell’autore e gli scritti polemici contro Bonifacio VIII e la curia. Tra i suoi scritti vanno pure ricordati il Trattato ascetico, la raccolta dei Detti ed alcuni componimenti in latino, tra cui emerge il famoso Stabat Mater. Ciò che appare evidente nel Laudario e nelle altre opere di Jacopone, è la sua unica e irripetibile solitudine spirituale. Il distacco dalla vita sociale, la lacerante incapacità di comunicare con gli uomini i suoi profondi e riposti ideali mistici, gli impediscono di accettare naturalmente la realtà terrena. La sua poesia esprime l’ansia, l’angoscia continua dell’asceta che vede ovunque il peccato, la corruzione e, non ultima, la miseria della condizione umana. Di conseguenza egli decide di annullarsi, di annichilire, come individuo, nell’esperienza dell’amore sovrumano e divino. L’originalità della sua opera si concentra proprio su questo punto nodale, rendendola inimitabile ed inconfondibile in tutta l’età medievale. Come precedentemente detto, Jacopone fu il maggior protagonista del passaggio e della trasformazione della lauda in dramma religioso. La passione mistica ed una nobile perfezione morale, consentirono la diffusione tra i Flagellanti delle laude di Jacopone e, in special modo, del suo capolavoro: la Donna del Paradiso. Solitamente immerso nel suo lirismo solitario, qui, viceversa, Jacopone mira ad un’espressione drammatica della Passione di Cristo. Mentre per tutta l’Umbria non si placa il fenomeno letterario influenzato dalla forte tendenza mistica duecentesca, Perugia raggiunge l’apogeo della sua potenza economica e politica. Ormai domina l’intera regione con l’aiuto e l’alleanza di Siena e Firenze. Oltre alla densa attività politica, Perugia sviluppa al massimo tutti gli aspetti della vita comunale. Nel 1342, si stilava un grande Statuto in volgare, portando così il “perugino illustre” ad un alto grado di ufficialità storica. Accanto alla produzione di laude e alla loro elaborazione teatrale, si aggiunge in quel periodo una intensa attività di poeti e di scrittori. E’ di questi anni, infatti, il gruppo dei rimatori realistici perugini, composto da Marino Ceccoli (fine XIII secolo-1369), Cecco Nuccoli (XIV secolo) e Nerio Moscoli (fine XIII secolo-inizio XIV secolo). Dei tre esponenti perugini, il più rappresentativo per lirismo e varietà tematica è indubbiamente Nerio Moscoli, di Città di Castello. Nella sua poesia raccolse i due indirizzi culturali contrastanti di allora, ossia la fortuna lirica dantesca e l’accettazione del classicismo di Petrarca. Si distinse fra i contemporanei perché, a differenza dei numerosi cultori di motivi religiosi, predilesse il soggetto erotico. Questa deviazione contenutistica del Moscoli dipese forse dall’influsso della poesia toscana e stilnovistica in genere, subito durante la sua probabile permanenza in quella regione. D’altra parte, tra il 1320 e il 1350, in Umbria già stavano scomparendo le tematiche religiose nella letteratura e sempre più si affermavano i motivi fondamentali della donna, come unica ispiratrice di poesia e di amore. La letteratura non fu certo coltivata solo a Perugia, ma per il resto della regione non possediamo che notizie saltuarie di voci isolate. Due essenzialmente sono gli autori non perugini di questo periodo: Bosone Novello de’ Raffaelli (secolo XIII-morto dopo il 1349) di Gubbio e Federico Frezzi (1346-1416) di Foligno. Del primo, ci restano solamente due “capitoli” (componimenti poetici derivati, nella forma, dalle terzine dantesche) e qualche sonetto. Del secondo, sappiamo solo che, entrato nell’ordine di San Domenico, in breve tempo si conquistò una vasta cultura che lo fece reputare uno dei maggiori teologi della regione. Della produzione letteraria ci rimane una sola opera, il Quadriregio – poema in 74 canti, iniziato prima del 1394 e terminato tra il 1400 ed il 1403 – in cui il Frezzi imitò stilisticamente la poesia di Dante, Petrarca e Boccaccio.